martedì 10 dicembre 2013

Rigurgito antifascista contro prove generali di forza

Torino, piazza Castello. Foto scattata da Mirko Isaia, http://www.flickr.com/photos/mirko_isaia/
Dopo una settimana in cui ci sono state minacce, non tanto velate, a commercianti e attività per tutta Torino affinché il maggior numero di negozi chiudesse il giorno 9 dicembre 2013, (il giorno della "protesta dei forconi"); dopo aver sfogato una rabbia atavica, cresciuta forse pian piano ma che è inspiegabile da parte di certe categorie da cui è provenuto in passato, in maniera massiccia, il voto per Berlusconi, senza mai domandandosi dove i suoi governi ci stessero portando; dopo aver visto una guerriglia urbana in piazza Castello e in altre zone della città e di Italia, ottenendo anche in alcuni casi la solidarietà di alcuni poliziotti; dopo la notizia di pestaggi e violenze contro chi voleva invece aprire (magari gente che semplicemente ha un mutuo e una famiglia da sfamare, la stessa gente che magari lotta contro Equitalia per la sopravvivenza della propria attività); dopo il comunicato stampa dell'ANPI già pubblicato nei giorni scorsi contro i sostegni (sia di partecipanti che di organizzazione) espliciti e meno di forze dichiaratamente neofasciste alla manifestazione; dopo tutto ciò io mi sento di testimoniare, urlare e dichiarare, anche un in dovere di dire, da cittadino comune di questo Paese, di questa Repubblica nata dalla Resistenza, che non scenderò mai in piazza con i neofascisti. Non posso fare altrimenti essendo io fortemente antifascista. E non semplicemente per motivi ideologici o legali (ricordiamoci che in Italia abbiamo una Costituzione fondata sull'antifascismo e qualche legge che, in teoria ne vieta la propaganda), ma per motivi ben più concreti! Non voglio dare forza mediatica e sociale (o peggio, aiuto nel provare la propria forza di persuasione) a chi predica l'autoritarismo e l'odio nei rapporti umani e sociali.

La cosa preoccupante è invece quando movimenti e forze politiche - o presunte tali - si rallegrano di giornate come queste e che non hanno visto l'ora di testimoniare solidarietà con questa manifestazione. Dimenticandosi che la storia insegna che il populismo e il fascismo sono tigri che se le cavalchi, prima o poi ti sbraneranno.

sabato 9 novembre 2013

Il 9 novembre tra muri e ponti che crollano



I ponti mettono in comunicazione le persone situate su due sponde. Partiamo da questa banalissima certezza. E non è tale solo da un sacrosanto punto di vista culturale e sociale: gli uomini costruiscono i ponti perché, come già scriveva Aristotele, non possono fare a meno gli uni degli altri. Quindi banalmente per il commercio, per raggiungere dei campi, una strada, delle fonti potabili... i ponti mettono in comunicazione le idee e le culture, ma anche le necessità e le risorse.

Quando il 9 novembre 1993 le truppe croato-bosniache abbatterono il Ponte Vecchio di Mostar, meraviglia costruita nel 1566 per ordine di Solimano il Magnifico, la popolazione musulmana di Mostar (e tutti coloro che avevano creduto in una convivenza pacifica) non ricevette solo un colpo psicologico, ma anche materiale: avevano perduto l'accesso all'acqua potabile, in una guerra in cui gli aiuti umanitari dell'ONU difficilmente riuscivano a raggiungere la loro destinazione perché bloccati dai diversi gruppi armati. Quel ponte era la sopravvivenza materiale di quella gente, prima di quella culturale e spirituale.
Prima dello scoppio della guerra, a Mostar la popolazione mussulmana e quella croata erano in percentuali pressapoco uguali: 34,8% quella mussulmana, 33,8% quella croata. I serbi erano in netta minoranza (19%)¹. Insomma, Mostar era croata tanto quanto fosse musulmana.
Nel 1993, mentre le tv di tutto il mondo erano concentrate soprattutto sulla capitale Sarajevo e sul confine con la Serbia, in questa altra parte del Paese si combatteva un'ulteriore guerra tra croato-bosniaci (appoggiati dall'allora governo croato, tanto quanto Milošević appoggiava Karadžić) e musulmani. La distruzione del Ponte Vecchio fu una rappresaglia dopo la conquista di diversi villaggi da parte delle truppe musulmane, in particolare quella della cittadina di Vares, saccheggiandola, con morti e distruzioni e con la fuga dei 12000 abitanti croati. Occhio per occhio. 

Tutto questo quando le principali potenze dell'epoca erano bloccate su come dividere la Bosnia-Erzegovina: da anni stavano discutendo su quanti cantoni la Bosnia doveva avere, sul metraggio dei confini tra un cantone e l'altro, sulle percentuali di popolazione aveva un determinato territorio per assegnarlo a una o un'altra zona... erano le discussioni del camaleontico Piano Vance-Owen. Mentre serbi, musulmani e croati si sparavano a vicenda per cambiare la composizione etnica delle città e delle vallate, le principali potenze internazionali discutevano a Ginevra o a New York, alimentate spesso da interessi geopolitici o di parte.

La storia ci ha consegnato il 9 novembre per un'altra epocale ricorrenza: l'abbattimento del Muro di Berlino. Dopo anni di Guerra Fredda, due Stati creati a tavolino per esigenze di equilibrio internazionale, finalmente ritornavano a unirsi per formare l'odierna Germania. Nel 1989 si abbatté un ostacolo alla riunificazione di famiglie, di una città, di una nazione. Quella stessa Germania, insieme a Francia, Regno Unito, USA e Russia pochi anni dopo si contendeva la sua fetta di egemonia in una zona strategica per l'intero continente: i Balcani.
Un muro che cade, un ponte che crolla. Quale azzeccata coincidenza ci ha regalato la storia! 

Forse questa data accoglie in sé questi due eventi proprio per questo motivo: per ricordare a noi europei che spesso siamo in gamba a enunciare principi e valori di pace, fratellanza e democrazia, ma quando si tratta di spostare lo sguardo sulla nostra periferia viene a mancare la volontà. I muri dentro casa sono per fortuna crollati, ora lasciano spazio a muri più alti e più ansiosi verso l'esterno.
Quali ponti stanno ancora crollando oggi? O meglio, quali "muri" stiamo ancora edificando, nel 2013? È normale ragionare di due sponde, quelle del Mediterraneo, parlando che una delle due debba essere "difesa"? Non è che alla base delle "attraversate della speranza" ci sia la stessa necessità che sta alla base di un ponte: vivere, rispondere a delle necessità essenziali?

Oggi il Ponte Vecchio di Mostar è stato mirabilmente ricostruito (un consiglio: se avrete mai l'opportunità di farlo, visitatelo) ed è, a fatica, nuovamente al centro della vita cittadina e turistica di questa città. La ricostruzione fisica ha avuto successo (anche grazie agli aiuti economici dell'Unione Europea), ma domandiamoci quanto lo abbia avuto quella spirituale. Mi piace pensare che forse sarebbe bello che energie, risorse e attenzioni vengano spese anche per la costruzione di un ulteriore ponte: quello che unisce l'Africa con l'Europa. Concretamente smettere di avere la sindrome da secolo XI quando Ungari, Mori e Normanni attaccavano l'Europa dall'esterno e proviamo a capire i meccanismi che hanno messo in moto questa nuova ecatombe per provare ad agire; prendiamo forse un po' più esempio dai romani del tardo Impero, quando si resero conto che era molto meglio integrare le popolazioni barbare invece che inutilmente respingerle. Da quell'integrazione, secoli dopo, è nata l'Europa medievale con i suoi regni, le sue lingue, le sue cattedrali, i suoi palazzi, i suoi pensatori e poeti: con la sua multiforme ricchezza. I ponti che vengono costruiti all'inizio solo per necessità, mettendo in contatto culture diverse, generano con il tempo un tipo particolare di ricchezza.

"Unità nella diversità". Ebbene sì, questo è il motto dell'Unione Europea. Tra i molti simboli di cui l'Unione si è dotata questo è tra quelli che preferisco. Non lasciamo però anche questo nel cortile di casa e gettiamolo oltre il muro, oltre l'ostacolo, nella periferia a noi vicina.


¹ Dati del censimento del 1991, S. L. Burg, P. L. Shoup, "The war in Bosnia-Herzegovina", M. E. Sharpe, New York, 2000

mercoledì 25 settembre 2013

Paesaggio lunare

Immobilismo. Ecco di cosa siamo spettatori nelle ultime settimane. Eppure ormai la pausa estiva è ampiamente finita (ma poi chi ha detto che politica e società debbano fermare il dibattito durante l'estate non lo so) e siamo di fronte a uno scenario che rasenta i paesaggi lunari fotografati dalle missioni Apollo negli anni Settanta... però lì almeno saltellavano, giocavano a golf o facevano rally con il rover lunare.

Da una parte abbiamo il PD. A sbirciare lì dentro sembra veramente di respirare un'aria da "si salvi chi può" o da "lotta per la sopravvivenza". È chiaro e poco entusiasmante il tentativo di sabotare un congresso che doveva celebrarsi già in primavera, subito dopo l'affondamento dell'elezione del fondatore al Quirinale per favorire le "larghe intese". Si sta cercando di salvare meccanismi che permetterebbero al partito di mantenere i conflitti di interesse e la sopravvivenza di pezzi di apparato altrimenti destinati all'estinzione (vedasi Rotondi o Fioroni); qui non si tratta di dare un giudizio politico su Matteo Renzi, il probabile vincitore alla segreteria, ma si tratta di capire che, nel bene e nel male, una volta vinto il congresso, cambierà il suo partito, e se farà quello che aveva già promesso alle primarie porterà essenzialmente tre rivoluzioni in un partito che negli ultimi mesi ha spudoratamente rifiutato di ascoltare la propria base: 1) rottamazione (via chi ha fallito in questo lungo periodo di dirigenza); 2) abolizione del finanziamento pubblico (addio a grossi introiti che assicuravano un bel po' di potere e di clientela); 3) apertura della partecipazione del partito (andare contro un'idea che la politica la debba fare solo il politico e non il cittadino impegnato). 

Da un'altra parte abbiamo un Movimento che, pur avendo alcune buone idee, si sta incancrenendo per una mancanza di progetto, di strategia. Ma questo era evidente già in campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle presentò tale e quale il programma delle amministrative del 2009, senza modifiche, senza ampio respiro sulle politiche da attuare a livello nazionale e internazionale (a parte il giochino ridicolo sul referendum sull'euro, quando lo stesso Grillo sapeva benissimo che non si sarebbe potuto fare). Oltre a ciò c'è il loro continuo polemizzare sul dito senza mai arrivare a voler guardare la Luna: io posso anche essere d'accordo su delle critiche riguardanti il comportamento o le scelte istituzionali del Presidente della Camera Boldrini, ma è possibile che tra tutte le cose che vanno a rotoli bisogni concentrare l'attenzione mediatica e la vis polemica su questo personaggio (accennando qualcosina al resto, ma con meno vigore, meno indignazione). Quelli che dovevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno si sono concentrati sulla mera vita parlamentare, si sono concentrati solo su una critica (per carità, giusta) alla casta, ma hanno dimenticato che per cambiare un Paese come predicano loro forse bisogna interagire e affacciarsi anche al di fuori delle Camere. Inoltre credo che Boldrini e M5S abbiano in comune una cosa: l'ego. Entrambi non possono che criticarsi a vicenda, uno da la sponda all'altra che puntualmente ci casca. Come quei bambini spocchiosi che vogliono sempre avere l'ultima parola per far vedere quanto l'altro sia da meno. Insomma, ma fare un po' a meno di ribattere sempre alle provocazioni e parlare di più di altri problemi? Già ma per fare questo c'è bisogno di una strategia unitaria, cosa che manca, e torniamo al punto iniziale; dubito che possa esistere una strategia politica condivisa e armoniosa quando le stesse decisioni dei parlamentari 5 stelle vengono vagliate e a volte messe in discussione dal capo-padrone. Forse che stia lì allora la causa dell'immobilismo dei 5 stelle? Che Grillo sia croce e delizia del Movimento? C'è appunto da aggiungere che senza l'impatto mediatico e il carisma di Beppe Grillo difficilmente il Movimento avrebbe raggiunto il 25% sulla base delle buone intenzioni e delle buone idee.

Poi vabè, c'è il PDL... ma vogliamo veramente commentare?

Cercasi colpo di reni e non calcoli renali.

venerdì 13 settembre 2013

Fede e Ragione

Fede e Ragione
ognuna madre che allatta la medesima necessità
umana:
la brama di specchiarsi nella trasparenza,
in profondità dentro la stessa anima 
umana.

Si scoprì lo specchio della Ragione, 
a esso si tolse il sottile velo di raso,
per scoprire che esso rifletteva davanti

lo specchio della Fede
che altrettanto guardava dentro l'infinità dello specchio adiacente.

Non si toccano.
Non si baciano.
Possono anche ignorarsi,
ma non possono che riflettersi l’uno con l’altro.

L’uno di fronte all'altro non possono che specchiarsi,
rimandare dall'uno all'altro 
la luce posta dentro di essi da chissà dove.

Ognuno vede sprofondare nell'altro
l’infinito del riflesso che corre lungo l’Infinito del riflesso di uno specchio.

venerdì 6 settembre 2013

Incontri ravvicinati di un certo tipo

La sensazione che mi sfiorava sulla pelle e nel cuore mentre pedalavo, qualche giorno fa, sulla pista ciclabile che spesso accoglie il solco dei copertoni della mia bici era di gioia e di serenità. Tutto arrivato come ossigeno nel mio animo a volte un po' abbattuto, in pochi minuti, attraverso la vista, il tempo di una volata per uscire fuori da quella strana dimensione ciclopedonale: un vecchietto che andava in bici in ciabatte e con un portapacchi di fortuna (fatto con una cassetta della frutta), di ritorno da qualche cerca preziosa in mezzo ai campi; una mamma con la propria bambina che camminavano insieme guardando le montagne di fine giornata; un ragazzo prima e una ragazza dopo che consumavano le loro quotidiane endorfine nel loro allenamento serale; due amanti non più tanto giovani, mano nella mano, che camminavano con un passo lento ma sincronizzato; un signore che portava a spasso un cane scodinzolante. Tutto immerso nel colore e nella strana luce settembrina di una giornata che non vuole arrendersi al tramonto.
Fino a qualche anno fa era molto inusuale questo insieme di persone che oggi preferiscono riprendersi, o per gusto o per necessità, i tempi umani lenti che l'automobile non può dare. Soprattutto nella provincia di Torino. Forse la crisi, in qualche ambito e in qualche persona, è stata superata e risolta.

martedì 27 agosto 2013

A che punto è la notte? Il 28 agosto 1963, cinquant'anni dopo.




"I have a dream".

Ancora oggi emoziona risentire quelle parole, vedere la commozione di chi le pronunciava cinquant'anni fa, a Washington, di fronte a un folla enorme di neri, bianchi, cattolici, protestanti, ebrei e uomini e donne di qualunque differenza sociale, religiosa e di pelle.
Quell'uomo, che si mordeva il labbro dall'emozione mentre predicava la sua buona novella, era il reverendo Martin Luther King.

La capacità di quest'uomo, e di coloro che seppero seguirlo nella lotta per l'uguaglianza degli afroamericani, fu proprio quella di saper sognare, di saper nitidamente immaginarsi un mondo, o almeno un'America diversa da quella che stavano vivendo, una nazione dove "piccoli Neri, bambini e bambine, potranno unire le loro mani con piccoli bianchi, bambini e bambine, come fratelli e sorelle", una nazione che aveva tradito "la promessa" sancita dalla sua Costituzione, un'America già sognata dai padri fondatori. Ebbene, il sogno di Martin Luther King non rimase appiccicato alle sue labbra e alle orecchie di chi lo ascoltava: è stato un sogno che ha incominciato a scavare, a volte anche solo come una piccola goccia sulla roccia, nell'indifferenza e nell'ostilità dell'America più brutale e più nera (quella veramente nera) che voleva tenere in segregazione una parte della sua nazione, solo perché diversa, perché povera. 

In cinquant'anni milioni di persone non si sono limitate a sognare: quel sogno sono state disposte a costruirlo, a rischiare, a pagare. Dopo cinquant'anni quel sogno non illudiamoci che si sia compiuto appieno, ma grandi passi avanti sono stati fatti. Nel 2008 io non potevo credere a quale dimostrazione l'America ci stava dando nella notte elettorale, eleggendo per la prima volta, un presidente afroamericano, Barack Obama. Non credo che l'elezione di Obama sia la principale misura del successo del sogno di Martin Luther King, preferisco andare a capire come siano oggi gli standard di vita delle popolazioni afroamericane negli stati del sud (ancora oggi tra le più precarie); ma ciò che era impensabile prima, nel 2008 - e nella conferma del secondo mandato nel 2012 - si era concretizzato.
Ecco è questa la caratteristica dei sogni: se vengono esauditi concretizzano ciò che prima era impensabile. Il sogno non può che esser preso sul serio, altrimenti menti a te stesso; quando si sogna bisogna domandarsi quanto si è disposti ad assecondare quel sogno, perché allora ti verrà chiesto il prezzo della concretezza paziente, forse lenta e faticosa da raggiungere. I sogni non si realizzano alla mattina quando ti svegli e torni nella realtà del presente, hanno bisogno di stagioni per mettere radici e crescere nel futuro. Martin Luther King è morto poco tempo dopo quel discorso, assassinato, senza poter vedere crescere il seme che intanto aveva contribuito a piantare e a far germogliare. 

Nella stessa giornata di oggi, cinquant'anni dopo quella storica giornata americana, sono stato affranto nel sentire e nel vedere lo sguardo di una donna di colore che sta lottando per l'uguaglianza qui in Italia: Cecile Kyenge. Oggi ha espresso la sua amarezza sia con parole che con lo sguardo "Io so di essere a casa, ma è bello sentirselo dire ogni tanto anche dagli altri". 
A che punto è la notte qui in Italia? Qui nel nostro Paese a che punto la notte è pallidamente illuminata dal sogno di Martin Luther King, dal sogno di chi crede nell'uguaglianza e nella fratellanza tra esseri umani? Io mi faccio queste domande ogni volta che sento orribili insulti rivolti a questa donna, insulti che mirano a colpire lei affinché in Italia il prossimo politico di colore ci pensi ben due volte prima di spendersi di persona; affinché l'Italia stessa ci pensi due volte prima di riproporre una persona che non abbia la pelle chiara per occuparsi della cosa pubblica; affinché chi lotta anche nel Palazzo e non solo per strada per la difesa dei diritti inalienabili dell'uomo sappia che non c'è vita facile per chi sogna un'Italia diversa.

Io non mi aspetto di svegliarmi domattina e vedere quel sogno realizzato nel mio Paese. Però quello che mi aspetto e che pretendo è trovare al mio risveglio persone disposte a costruirlo questo sogno, a lottare, a osteggiare questa mentalità, prima nei loro cuori e poi nella vita comune che si srotola dal panettiere alla fermata del bus. Queste persone sono già tante. ma forse non ancora abbastanza.

venerdì 5 luglio 2013

Qualcosa che si muove. A Montecitorio. Su due ruote

Ebbene, nel "palazzo" sembra che qualcosa si muova, e lo sta facendo sulle due ruote. I 60 parlamentari che si sono dichiarati favorevoli a una promozione di ristrutturazione legislativa per la ciclimobilità si sono incontrati con le principali associazioni pro-bike: il "palazzo" (o meglio, una parte di esso) ha incontrato la strada.
Riporto qui la buona notizia di questi giorni, fonte la newsletter della FIAB. Ora, si spera che il lavoro parlamentare possa procedere spedito e magari trovare aiuto e facilitazioni dal governo.

Un incontro pubblico sui temi della mobilità in bicicletta si è tenuto a Roma, nella serata di mercoledì 26 giugno, per iniziativa dall'intergruppo parlamentare per la mobilità nuova e ciclistica.

Presenti rappresentanti di diverse associazioni attive nel settore. La più nutrita è stata la delegazione FIAB. Guidata dalla presidente nazionale Giulietta Pagliaccio.

Per il gruppo interparlamentare erano presenti Paolo Gandolfi, già assessore alla mobilità di Reggio Emilia, Antonio Decaro, già assessore alla mobilità di Bari, Michele Mognato, già assessore alla mobilità di Mestre, Roberto Cotti, socio fondatore dell'associazione FIAB di Cagliari "Citta Ciclabile".

Gandolfi ha introdotto la serata presentando il neo-nato gruppo interparlamentare: oltre 60 parlamentari, da diverse parti d'Italia. Tre i punti principali sui quali i parlamentari hanno assicurato il loro impegno:

1. una legge quadro per la mobilità ciclistica, partendo dalle proposte di legge già giacenti alla Camera dei Deputati e dalle migliori esperienze di leggi regionali esistenti;
2. modifica organica del codice della strada per consentire agli enti locali strumenti operativi immediati come ad esempio introdurre il doppio senso di marcia nelle strade a senso unico;
3. il riconoscimento giuridico dell'infortunio in itinere, una garanzia in più, attualmente mancante, per favorire la diffusione dell'utilizzo della bicicletta negli spostamenti casa-lavoro.

L'agenda dettata dai parlamentari è pienamente condivisa dalla nostra Federazione e sui quei temi i nostri esperti potranno assicurare in tutte le maniere ogni contributo possibile. Sono anni che la FIAB studia ed elabora proposte e documenti tecnico-giuridici in materia, confrontandosi anche con le migliori esperienze estere all'interno dell'European Cyclists Federation.

mercoledì 26 giugno 2013

Guerra alla semantica

La prima vittima è sempre lei: la verità. E forse ancor prima la sua forma più umana, più diretta, più immediata: la parola.
I romani dicevano "prepara la guerra se vuoi la pace". Già. Questo ancora prima della nascita di Cristo, più di duemila anni fa. Forse i romani, benché sanguinari e terribili nelle terre che andavano a conquistare, non avevano armi così potenti come i cacciabombardieri F-35. E neanche così costosi. Oggi, nel 2013, non basta avere una bomba atomica o armi chimiche per distruggere un Paese, una popolazione, una Nazione... bastano le cosidette "armi convenzionali", più qualche bel migliaio di mine, e il gioco è fatto. Noi italiani ci accontentiamo, siamo di basso profilo, possiamo largamente ammazzare senza il rombo dei funghi atomici.

Per decenza o per paura di contestazioni una persona che è a capo di un ministero così importante dovrebbe forse, per difesa sua, non oltraggiare in questo modo i concetti, le idee, i valori: dire di armare la pace per amarla è come dire di stuprare una donna per farci l'amore.

venerdì 21 giugno 2013

Favola partigiana

Cadde la neve, copiosamente, accarezzando il Mondo, la terra contadina, con la sua antica ninna-nanna.
Cadde come mai cadde e come mai cadrà più. Gli uomini, infreddoliti da anni, si chiedevano se stesse cadendo anche per loro, ché tanto ormai desideravano la pace, desideravano la casa, o la moglie o la mamma.
Pure i fucili si domandavano se la neve stesse cadendo per loro; non che facesse differenza, oramai erano da tempo arrugginiti, ma trovavano comunque un loro piacere nel sentire la loro pelle di metallo esser toccata da un freddo ancora più freddo.
Le scarpe e gli scarponi erano solo rammaricati di rovinare quella coperta d’incanto, disegnando forme sul manto inviolato, strani nidi di ragno che si stagliavano sui campi.
Cosa pensasse la neve non lo so, era solo così dolce e quasi indifferente, come una mamma che culla il pianto, anche rosso, del proprio bimbo.
Anche la Morte si accorse del bianco evento e si distrò anch’essa per un poco a vedere la perfezione geometrica dei fiocchi di neve. Ma solo per un attimo.
La valle salutava la calma discesa bianca con i camini riluttanti di gonfi fumi bigi e neri. Tedeschi e Repubblichini erano nella valle e cercavano i “banditi”; l’improvvisa nevicata aveva rallentato le rappresaglie e c’era perfino tempo per riappropriarsi del pensiero. E non era facile rimanere indifferenti di fronte al mistero della pace della neve.
I “banditi”, come venivano chiamati, erano al corrente del male arrivato nella valle: la Morte aleggiava su quelle terre già prima della neve e li cercava, sembrava in certi momenti lì lì, alla porta, pronta a bussare o altre volte lontana, via dalla valle.
Si respirava il freddo che avvolgeva, come avvolgeva il miracolo bianco che da due giorni faceva la sua apparizione. Dentro la casa Cesco scriveva una lettera, il camino ovviamente non era acceso e le mani rosse bruciavano dal gelo. Scriveva a suo fratello: voleva sapere come stava la sua famiglia, ormai da mesi lasciata; e la sua Mimma, anch’ella riposta in uno scrigno protetto, sia in paese che nel suo animo, Mimma che stringeva a sé come se fosse oro e rubini. Tutti quei ricordi, quei volti, nostalgici e felici. Lontani.
Perché Cesco era lì? Perché salì sui monti e divenne partigiano? Perché lasciò tutti i suoi tesori per impugnare il fucile? Di sicuro la ragione principale fu per non impugnarne un altro, di fucile, arrugginito uguale ma ancor meno amato e più pesante: era stato chiamato all’armi dall’esercito della Repubblica Sociale. Ma come per tutte quelle decisioni che ti portano chissà dove e ti immergono in chissà quale situazione, la presenza di Cesco in Montagna era frutto dell’unione di scelte consapevolmente o meno volute e di interventi del Caso, che gira e fa girare le vite, i cammini, le strade degli uomini e i fiocchi di neve.
Attore o marionetta della Vita? Tutte e due, ma è sempre difficile definirne la misura.
“Vieni Cesco, prendi la tua roba, ce ne andiamo”, era la frase che da giorni temeva e gli arrivò da un suo compagno, entrato in casa con calma ma con risolutezza, mentre il foglio che aveva sottomano era ricoperto solo a metà. Lo piegò - “Mio caro Italo, ti scrivo e ti dico che io sto bene e che sono sempre felice di ricever notizie vostre…” - e se lo mise nella tasca della giacca, a contatto col cuore. La porta, aperta, fece entrare il gelo che era prima rinchiuso fuori, lo stesso gelo che trovò certo ad aspettarlo sotto la calma caduta bianca.
Il silenzio era compagno di viaggio indiscreto e raccontava loro come la valle si stava ricoprendo di neve immacolata. Cesco pensò a Dio, gli rivolse anche una preghiera, cosa che non faceva da anni: “Fa che non ci trovino, fa che possa rivedere Mimma, fa che…”, alzò il capo e vide nitidamente smettere di nevicare: l’incanto stava per finire, si ritornava dal sogno per ritrovare la realtà, per ritrovare la guerra.
Camminarono per ore, tutti e dodici, con zaini e fucili in spalla, qualcuno aveva anche una coperta sulle spalle, i più fortunati buoni scarponi. Ed ecco quel che non potevano immaginare sulla strada sterrata in fondo alla collina che ancora li protteggeva con la sua boscaglia: una camionetta di Repubblichini era bloccata, i suoi proprietari si affaccendavano a rimetterla in moto ma niente da fare: c’era bisogno di un meccanico e di meno neve sul terreno, impossibile su quelle montagne.
L’idea era bella e balzò in testa a tutti, subito: far fuori i repubblichini e prendersi il furgoncino, che forse portava o munizioni, o viveri, o chissà… tutti lo pensarono, ma non avevano il coraggio di saltar fuori dal fosso, scendere dalla collina mitragliando e compiere così l’impresa. Ad un certo punto Cesco prese la decisione e la prese come si prendono certe decisioni nell'ora del bisogno, senza pesare accuratamente i piatti della bilancia, senza sapere se era realmente attore o marionetta delle vicende. Saltò fuori e sparò ai repubblichini, scendendo giù con sì tanta rabbia da sfogare che sembrava un Achille contro i Troiani. E come Achille trascinava le schiere di Achei alla vittoria, così Cesco trascinò i suoi compagni giù dalla collina.
I corpi dei Fascisti impreparati erano a terra, caldi, riluttanti di sangue, stavano violando l’immacolato manto di quei giorni con il rosso del fratricidio, del paesano contro il paesano, dell’italiano contro l’italiano, dell’uomo contro l’uomo. Strana sensazione: sembrò di uccidere la neve con quel sangue su di essa.
Cesco si avvicinò alla camionetta e vide con stupore che non portava munizioni: portava la posta. Come a cercare un recondito nesso fra quelle righe e le sue portate al cuore, tirò fuori la sua lettera - “salutami tanto e con molto affetto Mimma, dille che la penso ogni giorno, dille che appena potrò la cercherò e ci vedremo…” - la teneva fra le dita, mentre il sangue gli colava sulla mano e mentre le urla dei suoi compagni si spegnevano; lo sapeva, ma non le sentiva, le percepiva ma le sue orecchie erano sorde. Cesco vide solo sé stesso trasformarsi in rigagnoli rossi cadere in terra: fece qualche passo, verso la bianca collina e in quel momento sentì nitidamente altri spari. Cesco capì che stava morendo, il suo sguardo calò giù col suo corpo, verso il bianco che lo avrebbe portato nel buio: la Morte aveva trovato di chi saziarsi e se la neve copriva il mondo, lei copriva la neve e gli uomini che la stavano abbracciando l’ultima volta.
E in quel momento ricominciò a nevicare, ancora una volta, dal cielo lontano, come se non fosse successo niente, con rinnovata e solita speranza di immacolare il mondo, ancora una volta, mai come quella volta, come tante volte succedutesi nell’ere degli uomini.

giovedì 20 giugno 2013

Il Grande Parrucchiere

Ultimamente penso che spesso molti di noi vivano la nostra vita sociale, comunitaria come se fossero dal parrucchiere. Anzi, che in fondo la nostra democrazia spesso venga immaginata come un Grande Parrucchiere. Degna sostituzione dell'orwelliano Grande Fratello in questi tempi magri successivi al 1984 in cui Orwell viene abbinato e confezionato insieme alla Marcuzzi.
Quindi immaginatevi un enorme sala di attesa, piena di riviste platinate, rigurgitanti del nulla anestetico; immaginatevi una moltidune di persone che parlano, parlano, la maggior parte di futilità, utilizzando parole e argomenti vuoti per riempire il tempo vuoto. E infine, nel momento decisivo, tutti si votano all'esperto, a colui che dovrebbe rinnovare, plasmare la felicità cutanea della nostra vanità: il Grande Parrucchiere. I capelli non siamo in grado di tagliarceli da soli, c'è bisogno di uno "che ne sa"! Eccolo, pronto a intervenire con i suoi strumenti del mestiere, ascoltando le nostre volontà e dandoci consigli migliorativi: tanto però è lui alla fine a operare, a tagliare, noi ci affidiamo alla sua competenza, immobili sulla poltroncina, in attesa che abbia finito.
Per poi magari ritrovarci in testa tutt'altro di quello che desideravamo.
P.S. e pensare che io non ho neanche necessità di andare dal parrucchiere...

venerdì 14 giugno 2013

Stiamo in una botte di ferro (finchè non ci rubano anche quella)

Non c'è che dire, questo video mi ha colpito così tanto, sia per il contenuto ma anche per la genialità dell'autore - e di chi negli States ha avuto l'idea prima di lui - che viene la tentazione di fare l'esperimento anche a Torino...
È allarmante vedere documentata la mancanza di un senso di responsabilità civile che dovrebbe portarci non tanto a farci gli affari degli altri, ma di prenderci cura degli altri soprattutto se tutto accade a due passi da noi: si può realmente rubare una bici in centro a Milano senza che nessuno dica niente o cerchi spiegazioni? Ebbene, la risposta la si trova nel video.

Mi viene da pensare anche: ma per fare questo video quanto avranno speso in lucchetti da poi buttare?


lunedì 10 giugno 2013

Il canto gregoriano

Il canto gregoriano si levava profondo nell’aria, penetrando l'immobile staticità e spingendo in su il fumo delle candele e dell’incenso; voci che nascono nell’ombra, canto che cerca luce e cielo, canto immerso e impregnato nel Silenzio. Prima che l’alba si levi per riscaldare il giorno, il canto dei monaci si innalza per riscaldare le loro coscienze dal buio e dal sonno.
Unisono ricco di molte voci profonde, ritmo lento e deciso, ancestrale, come l’onda del mare sulla spiaggia, parole ancora più antiche del mare e del mondo, create, scritte e pronunciate per quegli uomini soliti a svegliarsi nel mezzo della notte in cerca di luce. Parole che salgono al cielo rischiarato dagli astri del mattino per tutti gli uomini, tramite altri uomini.
Non sempre la luce squarcia le ombre, il sonno, il peccato, ma è presente, è viva e tremante, freme e lotta per riempire di pace lo spazio, il tempo e le tenebre dell’uomo.
Silenzio.

Nuova musica, altra voce: il silenzio.
L’ascolto della sua parola senza vibrazione, della sua onnipresenza nella chiesa fa sì che la preghiera diventi dialogo. Ora è il respiro dei monaci, svelato dalle ore fredde, a salire timidamente dai loro cappucci bui.
La solitudine di uomini che si riempiono dello Spirito di ogni cosa, di ogni essere, di ogni uomo e donna, solitudine che abbraccia la relazione con il Tutto, con il Creato, con il Creatore.
Difficile, a volte terribile, vegliare nelle tenebre notturne, le sentinelle del mattino scarseggiano, anche tra gli uomini di fede. Costoro che sono intimi di Dio saranno ascoltati? Le loro lodi e le loro preghiere raggiungeranno le stelle che piano piano si spengono, pronte a lasciare spazio all’irrompere del giorno? Noi un poco anche tramite loro, otterremo un poco di pace dal Male?
Un chiarore nel silenzio si fa strada sul pavimento di pietra vecchio di secoli, una linea che si allarga sempre più, entrando da una finestra rivolta verso oriente: l’attesa è finita.
Un giorno ancora è stato concesso, il Regno ancora però non è giunto. Quanto ancora il canto e il silenzio del monaco dovranno squarciare il buio di questo mondo votato all’ingiustizia degli uomini e all’ingiustizia degli eventi, affinché il Creato e l’uomo trovino il loro compimento nel Regno promesso? Quando il Signore Dio tornerà a farsi vedere nella luce che ci riempirà tutti senza più lasciare spazio alle nostre profonde e gelose ferite? Le gole dell’anima si nascondono dal chiarore dolce e caldo che pervade ogni nostro mattino terreno.
La giornata inizia, i monaci escono piano, al suono della campana, uno a uno, in silenzio, pronti a togliersi i cappucci per riscaldare il viso con il raggio di sole che timidamente è nato. Ma sono pronti per il giorno dopo ad attendere la luce, un’altra luce, speranza rinnovata in un giorno senza notte, senza buio, senza fine.

Ogni giorno si staglia l’assemblea dei monaci, roccaforte del Silenzio, elevatasi su di un monte che spunta dalla coltre poco chiara, miscellanea di smog, di cemento e di vociare confuso delle antenne televisive.
Nella mia strada c’è troppo rumore, nella mia testa c’è troppa confusione e torpore: se il Regno è giunto spero che gli Uomini del Silenzio siano riusciti a sentirne le trombe festanti.

giovedì 6 giugno 2013

Palestina 2009

I piedi son freddi
dentro il carroarmato
occhi per terra
che vedono guerra
occhi nel cielo
che piangono missili
occhi sbarrati
che vedono morte.
Occhio per occhio.
I piedi son freddi.
Piedi di bambini che calpestano il sangue della mamma
uscito dalla testa assieme ad una pallotola.
Sassi in terra, sassi per aria, sassi pesanti;
Invece del muschio c'hanno bene attaccata la rabbia.
Sputi sulle barbe
di ogni religione
il rasoio arriva, arriva la lama
ma oltre alla barba taglia la gola.
Sangue sui piedi
sangue colato freddo
ancora domani
ancora una scelta
prima di pace.

lunedì 3 giugno 2013

Morire per un albero

In questi giorni in Turchia sta accadendo qualcosa di impensabile qui in Italia: della gente muore per degli alberi. Muore non sotto i colpi di qualche fato o calamità naturale, ma sotto i colpi della polizia turca che cerca di reprimere le proteste con la violenza, "per far rispettare la legge". 
Tutto ciò perchè si è deciso di abbattere il grande parco Gezi, polmone verde di Instanbul, per far spazio a un enorme progetto di "riqualificazione urbana", con supermercati e infrastrutture. I giovani turchi (quelli veri, non i bamboccioni politici del PD di casa nostra) sono scesi a protestare in piazza Taksim contro il loro governo, contro questa decisione.
La protesta è nata perciò come protesta ecologica, ma si è subito fatta carico anche di un tema in Turchia (ma non solo) molto caldo: la laicità dello Stato. Sì perchè sempre in questi giorni il governo retto da Erdogan (dal 2002 al potere) ha messo forti restrizioni sull'uso degli alcolici, ultimo atto, agli occhi di molti turchi, di una serie di concessioni alla religione islamica che riduce fortemente l'idea di Stato laico nato con la moderna Turchia di Ataturk dopo la caduta dell'Impero Ottomano.
Quindi non solo ecologia. Ma è indubbio che dall'aldilà del Bosforo qualcuno ci sta dimostrando cosa voglia dire avere una coscienza civile su quei beni comuni che anche noi stiamo svendendo per le leggi del mercato o del progresso. Mantra che sentite da parecchio? sì, lo so... il progresso e il mercato cattivi... la solita solfa. Me ne dispiace, non bisogna assolutizzare, ma purtroppo sta accadendo questo in Turchia. E non solo.
La forte repressione di polizia riporta alla mente molti atti avvenuti negli ultimi anni anche in Italia, sempre per difendere legge, mercato e progresso. Un caso su tutti: la Val di Susa.
Ora non mi addentrerò nel giochino dialettico di chi sia buono o cattivo, di chi picchia e sbaglia o di chi picchia e fa bene. Chi mi conosce sa benissimo che sono convinto in una salda e territorialmente presente resistenza contro la costruzione della TAV, ma sa anche che mi preoccupa parecchio la deriva violenta di certe frange del Movimento NO TAV che delegittimano il lavoro di paziente costruzione di una coscienza civile nell'opinione pubblica; perché a mio parere non si può non passare dal convincere il resto della cittadinanza del nostro Paese sull'inutilità dell'opera. Ma il punto è che chi per primo dovrebbe garantire giustizia e democrazia, cioè la nostra Repubblica, non lo sta facendo. Non mi stupisco se un violento fa un atto violento: lo condanno, non lo accetto, ma non mi stupisco. Invece è triste stupirsi che la Repubblica usi la forza contro i suoi figli che difendono la "cosa pubblica". Negli anni passati le cariche della polizia a uomini, donne, anziani della Val di Susa, che si opponevano all'esproprio della propria terra per evitare un disastro ecologico ed economico, hanno compromesso in quelle terre la fiducia verso lo Stato che ora è difficilissimo recuperare. Molti valsusini si sentono circondati da uno Stato che non fa l'interesse comune. Eppure lo Stato, la Repubblica, dovrebbe essere il primo garante della "cosa di tutti", della "cosa pubblica", del "bene comune" e non degli interessi privati. 
Dite che anche questa l'avete già sentita troppe volte? Beh, sarò io il primo a essere felice di non ricorrere più a queste parole purtroppo da troppo tempo frequenti.

mercoledì 29 maggio 2013

Orgoglioso del Bike Pride

The bell rings!
Torino, città della FIAT. Torino, città grigia. Torino, città di pesanti radici savoiarde... Torino, città del BIKE PRIDE!
Il 26 maggio 2013 - ormai per la quarta volta - si è organizzato e messo in pista uno dei più grandi eventi di partecipazione ed educazione collettiva riguardo la nuova (e giusta!) mobilità: il Bike Pride, in cui più di ventimila biciclette colorate e di multiformi fogge si sono unite a far massa per creare un grande - grandioso - carosello per le vie della città, dal secolare parco del Valentino al contemporaneo parco Dora. 
Per la prima volta anch'io vi ho partecipato. Negli anni passati ci fu sempre un qualcosa (compreso il lavoro) che mi impedì di cavalcare una delle mie bici e aggiungere il mio "rrring" al concerto primaverile su due ruote. Stavolta ce l'ho fatto. Evviva! E io la "Poderosa" abbiamo potuto pavoneggiarci tra famiglie con carrellini e seggiolini, tra bikers su bici a forma di Harley Davidson (ma rigorosamente a pedali!), tra carretti, particolari risciò, grazielle con belle signorine, anziani con giacca e cravatta, signore con la spesa nel cestino, eccetera, eccetera e ancora eccetera... Sole, gioia e due ruote, il tutto condito con un ulteriore clima di festa al Parco Dora, aiutato dalla clemenza del tempo che ha regalato un bel po' di sole, cosa unica in questa primavera tardiva.
Un evento di cui essere orgogliosi, in una città che piano piano (forse troppo) si sta scoprendo smart e che si sta educando a una cultura della bicicletta che in altre città italiane ed europee è già da tempo assimilata. Ma il percorso non sarà breve. Intanto qualche criticità vien fuori già nell'organizzazione dell'evento: il percorso del bike pride ha toccato poco le arterie principali della città, passando timidamente da corso Vittorio Emanuele II e corso Regina, collegando i due da un tragitto svoltosi in vie secondarie e strette. Inoltre non è piaciuto a molti la comparsata del sindaco Piero Fassino, contestato fortemente al Parco Dora quando è salito sul palco per parlare: a molti è sembrato un mettere un capello a una manifestazione di base, nata tempo fa e ancora oggi alimentata dal basso; c'è da dire però che la Città di Torino ha patrocinato e sostenuto l'iniziativa... ma forse si dovrebbe fare di più negli altri 364 giorni dell'anno. I ciclisti urbani di Torino lamentano la scarsità di piste ciclabili, la loro cattiva manutenzione, lamentano che spesso si usa il trucchetto di trasformare un marciapiede in una pista ciclabile mista pedonale, non creando in realtà spazi veri e separati per rispondere alle esigenze di entrambi i tipi di soggetti della strada, il ciclista e il pedone. Il Bike Sharing a mio parere anche potrebbe essere sistemato maggiormente: invece di creare altre stazioni perchè non spendere quei soldi per aggiustare e dotare di tettoia quelle già esistenti? D'inverno e con le piogge le bici soffrono di gravi danni alle loro parti meccaniche, vitali per la sicurezza del ciclista. Una tettoia risolverebbe un po' il problema e sarebbe un finanziamento che a lungo andare farebbe risparmiare molti soldi pubblici in manutenzione.
Insomma, questa grande "Massa Critica" autorizzata e aiutata dai vigili urbani ha avuto il compito di far pensare su quanto di buono e giusto a Torino si sta facendo, ma anche sulle mancanze e sulle necessità che emergono. Un evento che anche per questo mi rende orgoglioso. Allora, da parte nostra, di cittadini che amano un mondo un po' migliore, si può contribuire facendo una scelta, piccola, il più possibile costante, per tenere accesa l'attenzione delle istituzioni e dell'opinione pubblica su questo tema: salire in sella e aggiungere una bici sulle strade mentre si toglie una macchina. Più ciclisti gireranno per Torino, più l'amministrazione comunale non potrà chiudere gli occhi sulle loro necessità.

martedì 28 maggio 2013

Ma sì, un post politico post-elezioni: la satira sempre e comunque?

Ci sono state le elezioni amministrative, grandi cali di affluenza dappertutto: chi alle politiche ci credeva ancora, negli ultimi due giorni non ha più saputo che pesci pigliare.
Non sono un politologo e mi stupisco parecchio che il PD faccia incetta di voti, anche giustificando ciò ricordandosi che i diversi "PD locali" a volte sono cosa diversa del "PD nazionale": Marino si era ampiamente espresso contro inciucio e contro le strategie di partito per l'elezione del Presidente della Repubblica; la parabola di Debora Serracchiani settimane fa insegna ancora. Insomma, una buona parte dell'elettorato vede che "Un altro PD è possibile". Per me rimane un mistero la tenuta del PD a Siena, ma ripeto, non sono un politologo...
Quello che però non mi stupisce affatto è il flop del Movimento 5 Stelle. Di sicuro il M5S è stato il primo partito a patire il calo di affluenza: molta gente che ci credeva non è stata sufficientemente soddisfatta della strategia di questi mesi a livello nazionale; non dimentichiamo inoltre le ultime vicende giornalistiche che da fonti "neutre" - se non amiche - hanno fatto (giustamente) le pulci al Movimento e al suo pigmalione, Beppe Grillo. Ma io mi domando: sono stati gli organi si stampa ad affossare il M5S? È stata la Gabanelli? Il Fatto Quotidiano? Sallusti? L'Espresso? "Il Grande Vecchio"? Beh, secondo me la colpa è di un signore che è l'unico ad avere il diritto indiscutibile a parlare lì dentro (alla faccia del "uno vale uno") e che quando lo fa dice cose del tipo che per prevenire il tumore bisogna eiaculare 21 volte al giorno... Questa è satira baby, e ci sta, ma fatta in un momento diverso da quello della satira, in un luogo ancora più diverso: in un comizio elettorale. Siamo vissuti nella superficialità politica per anni, abbiamo sentito gente già dei vecchi partiti parlare di grandi temi con un'approssimazione esagerata, abbiamo già visto che politici si sono trasformati in ridicoli clown per agguantare voti, forse si sperava realmente in un cambiamento che facesse la differenza. L'usare sempre e comunque un linguaggio satirico paga all'inizio, quando devi - anche giustamente - scandalizzare la gente, farla svegliare su alcuni temi che ritieni importanti: è questo il compito della satira. Ma se poi non arriva il momento di sedersi e di analizzare con maggiore cura i problemi e con ancora maggiore cura sporcarsi le mani e agire, allora i problemi non vengono risolti. Non si può, o almeno non si dovrebbe, essere approssimativi quando si fa politica: a quel punto non si può sparare numeri a caso, concentrarsi sulle macchiette, rimanere nel vago nel fare delle proposte o fare di tutta un erba un fascio. Perfino sul principale cavallo di battaglia del Movimento i militanti non sono stati chiari, ovvero quello dello stipendio dei parlamentari. C'è un momento giusto e arricchente per fare "satira" e poi uno diverso per fare concretamente "politica", questa distinzione forse a qualcuno non è ancora chiara...

giovedì 23 maggio 2013

Piccoli appunti serali

Uscire all'imbrunire di casa, salire la breve collina di fronte casa, incamminarcisi su, lasciarsi alle spalle sbuffi di fumo, fermarsi, girarsi e ammirare il blu della notte intento pian piano a impadronirsi del cielo e farsi illuminare da una luna quasi piena; guardare verso casa e ammirare la scura presenza del bosco che circonda il paese; scorgere un lampo dalle poche nubi lontane da dietro colorate dal chiaro lunare; continuare a salire e arrivare al canale povero d'acqua, ospite di due paperotti che, con calma, sculettando, si allontanano dall'improvviso osservatore poco silente; scendere, risalire, su, per un viottolo di paese pieno di sterpaglie; arrivare vicino alle mura centenarie del castello, sedersi sul ponte del canale e sentir volar via le papere di prima; ridiscendere, scorgere le luci e i rumori casalinghi delle case che da sempre sono lì su quelle vie; continuare a scendere e immergersi nel fracasso dei bar della piazza principale, camminando piano verso casa.
Camminare, sentire, ammirare, senza pretese. Un modo come un altro, forse più di altri, per ritagliarsi un piccolo momento di resistente serenità in un mondo che a fatica riesce a resistere alla città.

giovedì 16 maggio 2013

Riprendere, ripartire...

Da qualche settimana ormai mi chiedo e mi domando quale forma e quale strumento adottare per condividere qualcosa (ovviamente non tutto) delle esperienze che mi capitano lungo il cammino, quale tra le mille opzioni di "blog" possa al meglio essere utilizzata a tale scopo. Tutto questo dopo parecchi mesi che questo blog è stato in coma, inutilizzato.
Era anche un mettere in discussione delle esperienze telematiche già adottate (questo blog, appunto) per capire se ce ne fossero state delle migliori... ebbene, alla fine, provando un po' wordpress e provando un po' tumblr, alla fine, per le mie esigenze e per l'alta versatilità offertami, sono tornato al punto di partenza: questo blog su blogspot.
L'ho solo modificato un po'... non si chiamerà più "Diario di un ciclonauta", ma riceve una connotazione più personalistica, proprio perchè ho deciso di non relegare la condivisione di esperienze vissute solo all'ambito della mobilità ciclistica. Ecco il perchè del nuovo nome del blog. 
"Ma alla fine di cosa parlerai qui dentro?". Beh, le tematiche della ciclomobilità rimarranno principali. Ma mi sentirò legittimato di svariare anche in altri territori, tutto ciò che ritengo bello e arricchente per mettere in circolo nella rete esperienze, idee, pensieri, opere, umori certamente personali ma che possono trovare un'immedesimazione o una contrarietà da parte di chi legge.
Troppo vago? Forse... ma posso offrire solo quello che ho, che ho avuto o che penso di poter dare. Nulla di più. Il campo del vago già si ridimensiona.