mercoledì 26 giugno 2013

Guerra alla semantica

La prima vittima è sempre lei: la verità. E forse ancor prima la sua forma più umana, più diretta, più immediata: la parola.
I romani dicevano "prepara la guerra se vuoi la pace". Già. Questo ancora prima della nascita di Cristo, più di duemila anni fa. Forse i romani, benché sanguinari e terribili nelle terre che andavano a conquistare, non avevano armi così potenti come i cacciabombardieri F-35. E neanche così costosi. Oggi, nel 2013, non basta avere una bomba atomica o armi chimiche per distruggere un Paese, una popolazione, una Nazione... bastano le cosidette "armi convenzionali", più qualche bel migliaio di mine, e il gioco è fatto. Noi italiani ci accontentiamo, siamo di basso profilo, possiamo largamente ammazzare senza il rombo dei funghi atomici.

Per decenza o per paura di contestazioni una persona che è a capo di un ministero così importante dovrebbe forse, per difesa sua, non oltraggiare in questo modo i concetti, le idee, i valori: dire di armare la pace per amarla è come dire di stuprare una donna per farci l'amore.

venerdì 21 giugno 2013

Favola partigiana

Cadde la neve, copiosamente, accarezzando il Mondo, la terra contadina, con la sua antica ninna-nanna.
Cadde come mai cadde e come mai cadrà più. Gli uomini, infreddoliti da anni, si chiedevano se stesse cadendo anche per loro, ché tanto ormai desideravano la pace, desideravano la casa, o la moglie o la mamma.
Pure i fucili si domandavano se la neve stesse cadendo per loro; non che facesse differenza, oramai erano da tempo arrugginiti, ma trovavano comunque un loro piacere nel sentire la loro pelle di metallo esser toccata da un freddo ancora più freddo.
Le scarpe e gli scarponi erano solo rammaricati di rovinare quella coperta d’incanto, disegnando forme sul manto inviolato, strani nidi di ragno che si stagliavano sui campi.
Cosa pensasse la neve non lo so, era solo così dolce e quasi indifferente, come una mamma che culla il pianto, anche rosso, del proprio bimbo.
Anche la Morte si accorse del bianco evento e si distrò anch’essa per un poco a vedere la perfezione geometrica dei fiocchi di neve. Ma solo per un attimo.
La valle salutava la calma discesa bianca con i camini riluttanti di gonfi fumi bigi e neri. Tedeschi e Repubblichini erano nella valle e cercavano i “banditi”; l’improvvisa nevicata aveva rallentato le rappresaglie e c’era perfino tempo per riappropriarsi del pensiero. E non era facile rimanere indifferenti di fronte al mistero della pace della neve.
I “banditi”, come venivano chiamati, erano al corrente del male arrivato nella valle: la Morte aleggiava su quelle terre già prima della neve e li cercava, sembrava in certi momenti lì lì, alla porta, pronta a bussare o altre volte lontana, via dalla valle.
Si respirava il freddo che avvolgeva, come avvolgeva il miracolo bianco che da due giorni faceva la sua apparizione. Dentro la casa Cesco scriveva una lettera, il camino ovviamente non era acceso e le mani rosse bruciavano dal gelo. Scriveva a suo fratello: voleva sapere come stava la sua famiglia, ormai da mesi lasciata; e la sua Mimma, anch’ella riposta in uno scrigno protetto, sia in paese che nel suo animo, Mimma che stringeva a sé come se fosse oro e rubini. Tutti quei ricordi, quei volti, nostalgici e felici. Lontani.
Perché Cesco era lì? Perché salì sui monti e divenne partigiano? Perché lasciò tutti i suoi tesori per impugnare il fucile? Di sicuro la ragione principale fu per non impugnarne un altro, di fucile, arrugginito uguale ma ancor meno amato e più pesante: era stato chiamato all’armi dall’esercito della Repubblica Sociale. Ma come per tutte quelle decisioni che ti portano chissà dove e ti immergono in chissà quale situazione, la presenza di Cesco in Montagna era frutto dell’unione di scelte consapevolmente o meno volute e di interventi del Caso, che gira e fa girare le vite, i cammini, le strade degli uomini e i fiocchi di neve.
Attore o marionetta della Vita? Tutte e due, ma è sempre difficile definirne la misura.
“Vieni Cesco, prendi la tua roba, ce ne andiamo”, era la frase che da giorni temeva e gli arrivò da un suo compagno, entrato in casa con calma ma con risolutezza, mentre il foglio che aveva sottomano era ricoperto solo a metà. Lo piegò - “Mio caro Italo, ti scrivo e ti dico che io sto bene e che sono sempre felice di ricever notizie vostre…” - e se lo mise nella tasca della giacca, a contatto col cuore. La porta, aperta, fece entrare il gelo che era prima rinchiuso fuori, lo stesso gelo che trovò certo ad aspettarlo sotto la calma caduta bianca.
Il silenzio era compagno di viaggio indiscreto e raccontava loro come la valle si stava ricoprendo di neve immacolata. Cesco pensò a Dio, gli rivolse anche una preghiera, cosa che non faceva da anni: “Fa che non ci trovino, fa che possa rivedere Mimma, fa che…”, alzò il capo e vide nitidamente smettere di nevicare: l’incanto stava per finire, si ritornava dal sogno per ritrovare la realtà, per ritrovare la guerra.
Camminarono per ore, tutti e dodici, con zaini e fucili in spalla, qualcuno aveva anche una coperta sulle spalle, i più fortunati buoni scarponi. Ed ecco quel che non potevano immaginare sulla strada sterrata in fondo alla collina che ancora li protteggeva con la sua boscaglia: una camionetta di Repubblichini era bloccata, i suoi proprietari si affaccendavano a rimetterla in moto ma niente da fare: c’era bisogno di un meccanico e di meno neve sul terreno, impossibile su quelle montagne.
L’idea era bella e balzò in testa a tutti, subito: far fuori i repubblichini e prendersi il furgoncino, che forse portava o munizioni, o viveri, o chissà… tutti lo pensarono, ma non avevano il coraggio di saltar fuori dal fosso, scendere dalla collina mitragliando e compiere così l’impresa. Ad un certo punto Cesco prese la decisione e la prese come si prendono certe decisioni nell'ora del bisogno, senza pesare accuratamente i piatti della bilancia, senza sapere se era realmente attore o marionetta delle vicende. Saltò fuori e sparò ai repubblichini, scendendo giù con sì tanta rabbia da sfogare che sembrava un Achille contro i Troiani. E come Achille trascinava le schiere di Achei alla vittoria, così Cesco trascinò i suoi compagni giù dalla collina.
I corpi dei Fascisti impreparati erano a terra, caldi, riluttanti di sangue, stavano violando l’immacolato manto di quei giorni con il rosso del fratricidio, del paesano contro il paesano, dell’italiano contro l’italiano, dell’uomo contro l’uomo. Strana sensazione: sembrò di uccidere la neve con quel sangue su di essa.
Cesco si avvicinò alla camionetta e vide con stupore che non portava munizioni: portava la posta. Come a cercare un recondito nesso fra quelle righe e le sue portate al cuore, tirò fuori la sua lettera - “salutami tanto e con molto affetto Mimma, dille che la penso ogni giorno, dille che appena potrò la cercherò e ci vedremo…” - la teneva fra le dita, mentre il sangue gli colava sulla mano e mentre le urla dei suoi compagni si spegnevano; lo sapeva, ma non le sentiva, le percepiva ma le sue orecchie erano sorde. Cesco vide solo sé stesso trasformarsi in rigagnoli rossi cadere in terra: fece qualche passo, verso la bianca collina e in quel momento sentì nitidamente altri spari. Cesco capì che stava morendo, il suo sguardo calò giù col suo corpo, verso il bianco che lo avrebbe portato nel buio: la Morte aveva trovato di chi saziarsi e se la neve copriva il mondo, lei copriva la neve e gli uomini che la stavano abbracciando l’ultima volta.
E in quel momento ricominciò a nevicare, ancora una volta, dal cielo lontano, come se non fosse successo niente, con rinnovata e solita speranza di immacolare il mondo, ancora una volta, mai come quella volta, come tante volte succedutesi nell’ere degli uomini.

giovedì 20 giugno 2013

Il Grande Parrucchiere

Ultimamente penso che spesso molti di noi vivano la nostra vita sociale, comunitaria come se fossero dal parrucchiere. Anzi, che in fondo la nostra democrazia spesso venga immaginata come un Grande Parrucchiere. Degna sostituzione dell'orwelliano Grande Fratello in questi tempi magri successivi al 1984 in cui Orwell viene abbinato e confezionato insieme alla Marcuzzi.
Quindi immaginatevi un enorme sala di attesa, piena di riviste platinate, rigurgitanti del nulla anestetico; immaginatevi una moltidune di persone che parlano, parlano, la maggior parte di futilità, utilizzando parole e argomenti vuoti per riempire il tempo vuoto. E infine, nel momento decisivo, tutti si votano all'esperto, a colui che dovrebbe rinnovare, plasmare la felicità cutanea della nostra vanità: il Grande Parrucchiere. I capelli non siamo in grado di tagliarceli da soli, c'è bisogno di uno "che ne sa"! Eccolo, pronto a intervenire con i suoi strumenti del mestiere, ascoltando le nostre volontà e dandoci consigli migliorativi: tanto però è lui alla fine a operare, a tagliare, noi ci affidiamo alla sua competenza, immobili sulla poltroncina, in attesa che abbia finito.
Per poi magari ritrovarci in testa tutt'altro di quello che desideravamo.
P.S. e pensare che io non ho neanche necessità di andare dal parrucchiere...

venerdì 14 giugno 2013

Stiamo in una botte di ferro (finchè non ci rubano anche quella)

Non c'è che dire, questo video mi ha colpito così tanto, sia per il contenuto ma anche per la genialità dell'autore - e di chi negli States ha avuto l'idea prima di lui - che viene la tentazione di fare l'esperimento anche a Torino...
È allarmante vedere documentata la mancanza di un senso di responsabilità civile che dovrebbe portarci non tanto a farci gli affari degli altri, ma di prenderci cura degli altri soprattutto se tutto accade a due passi da noi: si può realmente rubare una bici in centro a Milano senza che nessuno dica niente o cerchi spiegazioni? Ebbene, la risposta la si trova nel video.

Mi viene da pensare anche: ma per fare questo video quanto avranno speso in lucchetti da poi buttare?


lunedì 10 giugno 2013

Il canto gregoriano

Il canto gregoriano si levava profondo nell’aria, penetrando l'immobile staticità e spingendo in su il fumo delle candele e dell’incenso; voci che nascono nell’ombra, canto che cerca luce e cielo, canto immerso e impregnato nel Silenzio. Prima che l’alba si levi per riscaldare il giorno, il canto dei monaci si innalza per riscaldare le loro coscienze dal buio e dal sonno.
Unisono ricco di molte voci profonde, ritmo lento e deciso, ancestrale, come l’onda del mare sulla spiaggia, parole ancora più antiche del mare e del mondo, create, scritte e pronunciate per quegli uomini soliti a svegliarsi nel mezzo della notte in cerca di luce. Parole che salgono al cielo rischiarato dagli astri del mattino per tutti gli uomini, tramite altri uomini.
Non sempre la luce squarcia le ombre, il sonno, il peccato, ma è presente, è viva e tremante, freme e lotta per riempire di pace lo spazio, il tempo e le tenebre dell’uomo.
Silenzio.

Nuova musica, altra voce: il silenzio.
L’ascolto della sua parola senza vibrazione, della sua onnipresenza nella chiesa fa sì che la preghiera diventi dialogo. Ora è il respiro dei monaci, svelato dalle ore fredde, a salire timidamente dai loro cappucci bui.
La solitudine di uomini che si riempiono dello Spirito di ogni cosa, di ogni essere, di ogni uomo e donna, solitudine che abbraccia la relazione con il Tutto, con il Creato, con il Creatore.
Difficile, a volte terribile, vegliare nelle tenebre notturne, le sentinelle del mattino scarseggiano, anche tra gli uomini di fede. Costoro che sono intimi di Dio saranno ascoltati? Le loro lodi e le loro preghiere raggiungeranno le stelle che piano piano si spengono, pronte a lasciare spazio all’irrompere del giorno? Noi un poco anche tramite loro, otterremo un poco di pace dal Male?
Un chiarore nel silenzio si fa strada sul pavimento di pietra vecchio di secoli, una linea che si allarga sempre più, entrando da una finestra rivolta verso oriente: l’attesa è finita.
Un giorno ancora è stato concesso, il Regno ancora però non è giunto. Quanto ancora il canto e il silenzio del monaco dovranno squarciare il buio di questo mondo votato all’ingiustizia degli uomini e all’ingiustizia degli eventi, affinché il Creato e l’uomo trovino il loro compimento nel Regno promesso? Quando il Signore Dio tornerà a farsi vedere nella luce che ci riempirà tutti senza più lasciare spazio alle nostre profonde e gelose ferite? Le gole dell’anima si nascondono dal chiarore dolce e caldo che pervade ogni nostro mattino terreno.
La giornata inizia, i monaci escono piano, al suono della campana, uno a uno, in silenzio, pronti a togliersi i cappucci per riscaldare il viso con il raggio di sole che timidamente è nato. Ma sono pronti per il giorno dopo ad attendere la luce, un’altra luce, speranza rinnovata in un giorno senza notte, senza buio, senza fine.

Ogni giorno si staglia l’assemblea dei monaci, roccaforte del Silenzio, elevatasi su di un monte che spunta dalla coltre poco chiara, miscellanea di smog, di cemento e di vociare confuso delle antenne televisive.
Nella mia strada c’è troppo rumore, nella mia testa c’è troppa confusione e torpore: se il Regno è giunto spero che gli Uomini del Silenzio siano riusciti a sentirne le trombe festanti.

giovedì 6 giugno 2013

Palestina 2009

I piedi son freddi
dentro il carroarmato
occhi per terra
che vedono guerra
occhi nel cielo
che piangono missili
occhi sbarrati
che vedono morte.
Occhio per occhio.
I piedi son freddi.
Piedi di bambini che calpestano il sangue della mamma
uscito dalla testa assieme ad una pallotola.
Sassi in terra, sassi per aria, sassi pesanti;
Invece del muschio c'hanno bene attaccata la rabbia.
Sputi sulle barbe
di ogni religione
il rasoio arriva, arriva la lama
ma oltre alla barba taglia la gola.
Sangue sui piedi
sangue colato freddo
ancora domani
ancora una scelta
prima di pace.

lunedì 3 giugno 2013

Morire per un albero

In questi giorni in Turchia sta accadendo qualcosa di impensabile qui in Italia: della gente muore per degli alberi. Muore non sotto i colpi di qualche fato o calamità naturale, ma sotto i colpi della polizia turca che cerca di reprimere le proteste con la violenza, "per far rispettare la legge". 
Tutto ciò perchè si è deciso di abbattere il grande parco Gezi, polmone verde di Instanbul, per far spazio a un enorme progetto di "riqualificazione urbana", con supermercati e infrastrutture. I giovani turchi (quelli veri, non i bamboccioni politici del PD di casa nostra) sono scesi a protestare in piazza Taksim contro il loro governo, contro questa decisione.
La protesta è nata perciò come protesta ecologica, ma si è subito fatta carico anche di un tema in Turchia (ma non solo) molto caldo: la laicità dello Stato. Sì perchè sempre in questi giorni il governo retto da Erdogan (dal 2002 al potere) ha messo forti restrizioni sull'uso degli alcolici, ultimo atto, agli occhi di molti turchi, di una serie di concessioni alla religione islamica che riduce fortemente l'idea di Stato laico nato con la moderna Turchia di Ataturk dopo la caduta dell'Impero Ottomano.
Quindi non solo ecologia. Ma è indubbio che dall'aldilà del Bosforo qualcuno ci sta dimostrando cosa voglia dire avere una coscienza civile su quei beni comuni che anche noi stiamo svendendo per le leggi del mercato o del progresso. Mantra che sentite da parecchio? sì, lo so... il progresso e il mercato cattivi... la solita solfa. Me ne dispiace, non bisogna assolutizzare, ma purtroppo sta accadendo questo in Turchia. E non solo.
La forte repressione di polizia riporta alla mente molti atti avvenuti negli ultimi anni anche in Italia, sempre per difendere legge, mercato e progresso. Un caso su tutti: la Val di Susa.
Ora non mi addentrerò nel giochino dialettico di chi sia buono o cattivo, di chi picchia e sbaglia o di chi picchia e fa bene. Chi mi conosce sa benissimo che sono convinto in una salda e territorialmente presente resistenza contro la costruzione della TAV, ma sa anche che mi preoccupa parecchio la deriva violenta di certe frange del Movimento NO TAV che delegittimano il lavoro di paziente costruzione di una coscienza civile nell'opinione pubblica; perché a mio parere non si può non passare dal convincere il resto della cittadinanza del nostro Paese sull'inutilità dell'opera. Ma il punto è che chi per primo dovrebbe garantire giustizia e democrazia, cioè la nostra Repubblica, non lo sta facendo. Non mi stupisco se un violento fa un atto violento: lo condanno, non lo accetto, ma non mi stupisco. Invece è triste stupirsi che la Repubblica usi la forza contro i suoi figli che difendono la "cosa pubblica". Negli anni passati le cariche della polizia a uomini, donne, anziani della Val di Susa, che si opponevano all'esproprio della propria terra per evitare un disastro ecologico ed economico, hanno compromesso in quelle terre la fiducia verso lo Stato che ora è difficilissimo recuperare. Molti valsusini si sentono circondati da uno Stato che non fa l'interesse comune. Eppure lo Stato, la Repubblica, dovrebbe essere il primo garante della "cosa di tutti", della "cosa pubblica", del "bene comune" e non degli interessi privati. 
Dite che anche questa l'avete già sentita troppe volte? Beh, sarò io il primo a essere felice di non ricorrere più a queste parole purtroppo da troppo tempo frequenti.