lunedì 14 settembre 2015

Qualcosa di storto in questa visione dello Stato di diritto

"Cercavi giustizia, trovasti la legge"

Credo che non si possa iniziare diversamente questo post, in questo mio blog a sfondo ciclabile, citando il buon De Gregori con la sua bella ballata che racconta dell'eroe Gilardengo e dell'amico Sante Pollastri. La giustizia non appartiene a questo mondo, possiamo solo accontentarci della legge, della legge degli uomini s'intende. Non è molto, non ci azzecca sempre, ma questo abbiamo: dall'Impero romano a oggi, passando per i giusnaturalisti e qualche rivoluzione, i nostri padri ci hanno lasciato in eredità - magari passando per esperienze terribili quali il fascismo - una cosa chiamata "Stato di diritto", in cui le libertà fondamentali dovrebbero essere riconosciute, difese e promosse (e non solo promesse). Per tutti. Sì, perchè l'uguaglianza, valore sacrasanto che il 1787 e il 1789 hanno osato rendere politico, è la volta che sorregge tutta la cupola di questa eredità giuridica che, senza saperlo, viviamo e respiriamo fin dalla tenera età, fin dai banchi di scuola, nostra prima occasione di esperienza civica e laica in un luogo pubblico.

È indubbio che durante i miei anni di vita una grave minaccia allo Stato di diritto è stata quella rapprensentata dai governi Berlusconi, in cui più e più volte si è svilito, attaccato e a volte colpito quel sacrosanto valore per cui siamo tutti e tutte uguali di fronte la legge.
Così l'Italia, Paese delle clientele, ha potuto vedere e ammirare il lavoro e la denuncia fatta da diversi giornalisti che, forse più di tutti (insieme ai magistrati), hanno subito gli attacchi mediatici del ventennio berlusconiano quando non si allineavano alla propaganda dettata dal governo. Alcuni hanno fondato piattaforme televisive, altri addirittura giornali.
Io sono stato uno di quelli che era felice della nascita de Il Fatto Quotidiano, un giornale che vedevo come una piazza in cui liberamente (senza interessi politici alle spalle) alcune firme potevano raccontare ciò che capitava in questo Paese tanto ovattato dalla propaganda. Ritenevo che possedesse ciò che per un giornale è importante: la credibilità. Da tempo però mi devo ricredere, e non solo per il caso qui raccontato.

L'altro giorno - dopo qualche giorno in cui il fatto fece scalpore sulla stampa nazionale - mi è capitato di leggere questo articolo a firma di Thomas Mackinson e mi son detto: "Ok questo è troppo".

La vicenda è nota: un ex professore, Giovanni Scattone, condannato per l'assassinio di Marta Russo (ero piccolo, ma ricordo perfettamente quanto i tg all'epoca davano spazio alle indagini di questo intricato omicidio), dopo aver scontato la pena vince una cattedra come insegnante nello Stato. Attenzione, "dopo aver scontato la pena". Dopo una settimana di polemiche Scattone ha rinunciato alla cattedra.
Ora, Mackinson incomincia una riflessione se sia giusto o meno che un individuo condannato come assassino possa, una volta scontata la pena, fare certi lavori. Io aggiungerei, il "suo" lavoro. Non voglio entrare nella polemica se sia stato realmente Scattone a compiere quel delitto (si è sempre dichiarato innocente), ma il punto è che per lo Stato di diritto, se tu hai scontato la pena prevista dalla legge, sei di fronte alla legge e allo Stato riabilitato, hai "pagato il tuo debito con la società", si dice. Per Mackinson e per Il Fatto Quotidiano parrebbe di no. Inoltre noto che spesso la tecnica utilizzata è mettere in campo un esperto, un professore, che ovviamente dia ragione alla tesi della redazione... senza però aprire un vero confronto e senza neanche aver la pretesa di dire o meno se l'opinione espressa sia accademicamente riconosciuta o maggioritaria.

Il fatto che un assassino ritorni al suo lavoro può farci storcere il naso e il cuore, ci può far gridare che Scattone debba marcire in cella o debba almeno trovarsi un lavoro diverso dal quale gli avrebbe permesso di compiere il suo "delitto perfetto", ma non funziona così lo Stato di diritto. Trovo altamente pericolosi questi atteggiamenti quanto lo erano quelli del governo Berlusconi, che miravano a sancire un cittadino più uguale di altri. Se poniamo che la pena non cancella la colpa e non recupera il condannato, ci perdiamo secoli e secoli di faticosa eredità lasciataci dai nostri padri. Piaccia o non piaccia, è un diritto di Scattone, una volta scontata la pena, di essere riabilitato, come di qualunque cittadino facente parte di una comunità di persone che scelgono lo Stato di diritto come cornice in cui promulgare le proprie leggi.

Insomma il paradosso è compiuto: uno dei pulpiti che in passato ha difeso lo Stato di diritto oggi si pone contro alcune delle sue espressioni elementari e sacrosante. E potrei citare altri esempi, come la polemica nata mesi fa su Adriano Sofri, ben cavalcata da Marco Travaglio e dal suo senso della legge (per fortuna esistono persone come Ascanio Celestini!).

Il problema è che questo atteggiamento... ehm... giustizialista (sì, l'ho detto e mai mi sarei immaginato un giorno di dirlo, benché faccia parte del linguaggio berlusconiano) spesso viene presentato come vero spirito di difesa dello Stato di diritto. Io temo che ciò ci porterebbe da altre parti e non so come possa solo venire in mente di aprire una discussione se sia lecito o meno questo diritto in un articolo di un giornale; e allora non solo dovremo fare a meno della giustizia, ma anche di quel palliativo con cui noi mortali cerchiamo di imitare Dio chiamata legge di diritto.

lunedì 22 giugno 2015

Con chi prendersela


Atene, Lampedusa, Ventimiglia, Ungheria... Europa.
Da settimane (complice una campagna elettorale giocata ancora con una parte politica che detiene gran parte dei media tradizionali e che hanno sorretto la volata della Lega Nord di Salvini) sentiamo parlare dell'emergenza migranti a Lampedusa e a Ventimiglia, che poi emergenza non è; sentiamo della faticosa e difficile partita per non far fallire la Grecia e salvare l'integrazione continentale; sentiamo di nuovi muri che sorgono a est (e a sud); sentiamo di quote, non quote, di austerity, di banche, ecc...

Se questa è l'Europa, potete tenervela. Già.
Atene, Lampedusa, Ventimiglia, Ungheria... Europa.
Da settimane (complice una campagna elettorale giocata ancora con una parte politica che detiene gran parte dei media tradizionali e che hanno sorretto la volata della Lega Nord di Salvini) sentiamo parlare dell'emergenza migranti a Lampedusa e a Ventimiglia, che poi emergenza non è; sentiamo della faticosa e difficile partita per non far fallire la Grecia e salvare l'integrazione continentale; sentiamo di nuovi muri che sorgono a est (e a sud); sentiamo di quote, non quote, di austerity, di banche, ecc...

Se questa è l'Europa, potete tenervela. Già. Peccato che questa non è l'Europa. Tutto ciò ha un nome e un cognome ed è una vecchia e nostalgica conoscenza: Stato nazione.

Se bisogna cercare un colpevole alla mancanza di una decisione equa e centrale da parte delle istituzioni europee, non va cercata nelle istituzioni tali, o almeno, in quelle sovranazionali, in quelle "europee"... ma nei singoli Stati che nella loro miopia vogliono portare avanti interessi particolari, per poi scoprire che la famosa cascata con tanto di salto non è molto lontana, e chissà se si sopravvive al salto.

Lo Stato nazione, con l'estremo pericolo che cova da sempre e che sembra essersi risvegliato più che mai, il nazionalismo, sono più che vivi, e lottano contro chi vorrebbe l'unica prospettiva possibile per questi problemi di grande portata storica: quella globale.

Le quote migranti sembra che verranno affossate al Consiglio europeo (l'insieme dei capi di Stato e di governo dell'Unione, dove servono o unanimità o ampie maggioranze), a Ventimiglia c'è la partita di ping pong tra Italia e Francia, in Ungheria è il governo che vuole costruire muri... La caratteristica di tutte queste vicende è la mancanza di un autorevole (e forte) potere centrale che prenda il posto di questi interessi particolari, per uno di maggiore respiro: insomma, manca l'Europa, l'Unione Europea, che timidamente e difficilmente con i suoi organi sovranazionali (Commissione e Parlamento) riescono a imporre la propria volontà al Consiglio europeo, ai singoli Stati.

Quindi, se questo è lo Stato nazione, tenetevelo, e datemi un poco più di Europa.

à. Peccato che questa non è l'Europa. Tutto ciò ha un nome e un cognome ed è una vecchia e nostalgica conoscenza: Stato nazione.

Se bisogna cercare un colpevole alla mancanza di una decisione equa e centrale da parte delle istituzioni europee, non va cercata nelle istituzioni tali, o almeno, in quelle sovranazionali, in quelle "europee"... ma nei singoli Stati che nella loro miopia vogliono portare avanti interessi particolari, per poi scoprire che la famosa cascata con tanto di salto non è molto lontana, e chissà se si sopravvive al salto.

Lo Stato nazione, con l'estremo pericolo che cova da sempre e che sembra essersi risvegliato più che mai, il nazionalismo, sono più che vivi, e lottano contro chi vorrebbe l'unica prospettiva possibile per questi problemi di grande portata storica: quella globale.

Le quote migranti sembra che verranno affossate al Consiglio europeo (l'insieme dei capi di Stato e di governo dell'Unione, dove servono o unanimità o ampie maggioranze), a Ventimiglia c'è la partita di ping pong tra Italia e Francia, in Ungheria è il governo che vuole costruire muri... La caratteristica di tutte queste vicende è la mancanza di un autorevole (e forte) potere centrale che prenda il posto di questi interessi particolari, per uno di maggiore respiro: insomma, manca l'Europa, l'Unione Europea, che timidamente e difficilmente con i suoi organi sovranazionali (Commissione e Parlamento) riescono a imporre la propria volontà al Consiglio europeo, ai singoli Stati.

Quindi, se questo è lo Stato nazione, tenetevelo, e datemi un poco più di Europa.

domenica 21 giugno 2015

Cuore e Testa, Satira e Politica

Ripropongo qui, cambiandone leggermente il titolo, un post datato che scrissi dopo una riflessione con un amico e che questi volle sul suo portale politico (leggibile qui) dopo le disastrose elezioni politiche del 2013.
Aggiungo due righe di commento col senno di poi: la condizione di "movimento" del soggetto politico creato di Grillo è ormai persa chissà dove con la cristalizzazione di un direttorio e di chi ha il compito di sancire il limite di divergenza citato nell'articolo. Renzi è diventato segretario del PD, Presidente del Consiglio, sta faticando a portare avanti il suo programma di governo derivante da una legittimazione basata sulle primarie (e non da un voto nazionale) e mi viene da dire (un po' ironicamente) che la sua azione di governo sta dando parecchi spunti su cosa possa essere la complessità in politica... Trovo ancora molto valide queste parole e mi piange il cuore che un salto dalla Satira alla fine alcuni soggetti politici l'hanno fatto: verso il populismo finalizzato all'autoconservazione e verso il nazionalismo finalizzato alla presa del potere.


Io credo che la realtà sia complessa. Il modo in cui la si legge e la si comunica denota anche il modo con cui affrontarla. Non per forza vi sono modi univoci, totalizzanti, possono esserci diversi modi di leggere la realtà, tutti legittimi, a seconda del contesto.

Per esempio la satira ha il dovere di semplificarla per mettere in luce brutture e assurdità con lo scopo di accendere una lampadina, una domanda nel cervello. Il fine ultimo non è lo sberleffo puro e semplice per ridere. Il fine ultimo è morale: creare una riflessione. In questa lettura la satira diviene così la miccia per altro: la riflessione di una cosa più complessa.

Dopo la fase dell’assurdo, della risata indirizzata al “re nudo” o agli “idioti”, bisognerebbe fare i conti con la complessità delle cose. Ultimamente in Italia abbiamo abbracciato il rifiuto della complessità: sono tutti uguali, tutti sono contro di noi, chiunque con un po’ d’istruzione ed esperienza può occuparsi di temi a livello nazionale, l’onestà è l’unico elemento discriminante, sono ingenui perdoniamo loro certe uscite, ecc… Questo rifiuto non è nuovo: lo abbiamo avuto già da molti anni da Berlusconi e purtroppo dal Centrosinistra.

Credo che la realtà, quando viene riconosciuta come materia complessa, dovrebbe essere oggetto della Politica, quella con la P maiuscola, vera e bella… quella “cosa” che non solo sa guardare le cose nel suo insieme, dall’alto, per leggere la grande trama di una “polis”, di una società, di un Paese, fatti di innumerevoli fili, ma anche quell’arte che riesce a scovare i punti su cui porre le leve per sollevare e cambiare la realtà stessa.

Le letture e gli strumenti non sono sempre gli stessi nel corso della storia e questo dovrebbe far riflettere se gli strumenti oggi adottati per fare politica (i partiti, in primis) siano ancora efficaci. Secondo il Movimento 5 Stelle no. Secondo altri sì. Secondo altri ancora ni. Indubbiamente i partiti in stile Pci, Dc o anche Forza Italia e Ds (ma si potrebbe citarne altre odierni) non possono essere oggi strumenti validi ed efficaci di fronte alla complessità e alle richieste di cittadinanza attiva che oggi si fanno strada per reazione a una continua riduzione del potere dello Stato rispetto alle decisioni sovranazionali, che siano queste di organismi internazionali o di mercato.

Inoltre la caduta delle ideologie ha fatto sparire – a mio giudizio per fortuna – il “voto sulla fiducia”, quella x posta sulla falce e martello o sullo scudo crociato indipendentemente dalle proposte e dalle persone, perché era il riconoscersi in un mondo, in un pacchetto di idee, facilmente riscontrabili a diversi livelli della vita di una persona (dal quotidiano fino alla contrapposizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti). Questo modo di ragionare oggi non è più efficace in un contesto dove le cose si sono fatte tutte maledettamente più complesse dagli anni Novanta in avanti.

Vi è un’incapacità di capire o di accettare questa complessità che oggi si manifesta per esempio nelle migliaia di anime, idee e fantasie al potere dei movimenti. L’incapacità del Pd di fare autocritica sta anche nel peccato originario del non riconoscere questi movimenti: partito “di popolo”, il Pd in questi anni ha spesso sconfessato le spinte e i laboratori provenienti non dalla pancia, ma dal cuore e dalla testa della gente. Non si tratta di giudicare i contenuti, in altre sedi si potrà fare questa operazione. C’è un mondo frustrato e snobbato dal principale partito della sinistra italiana: ancora riecheggiano le fatwa di D’Alema sui girotondini o sulla “politica al di fuori dei politici di professione”.

Oggi la complessità della realtà dovrebbe orientare a domande e scelte che coinvolgano quel variegato mondo dei movimenti, delle idee, che da decenni cresce all’ombra della politica, che cerca disperatamente uno spazio politico. Il problema è che questo mondo ha trovato uno spazio e un pigmalione in Beppe Grillo e nel suo blog. Riguardo al rapporto tra movimenti e Movimento 5 Stelle rimando alla lucida e interessante riflessione del collettivo Wu Ming (non certo persone assimilate al “sistema”, come potrebbe obiettare un attivista 5 Stelle nel sentire certe critiche), in cui viene spiegato come Grillo abbia “fagocitato” di fatto movimenti che invece si sono sviluppati in altri Paesi.

Indubbiamente Beppe Grillo ha il merito di aver tenuta accesa e di avere ampliato, dal suo blog e nelle piazze, un’onda critica su molti temi a proposito dei quali la sinistra ha taciuto o è stata compromissoria. Ma questo, appunto, è il compito della satira. Ora che Grillo ha fatto il passo successivo, continua a mantenere i tratti del “satirico” o ha cambiato anche registro di lettura e azione sulla realtà?

Quando Grillo le spara grosse su temi importanti (la frase “la mafia non uccide i suoi clienti”, la vaghezza sulla sua idea di redditto di cittadinanza, l’attacco all’art.67 della Costituzione o altre esagerazioni anche su numeri e temi tecnici) semplifica e usa un meccanismo satirico. Lo dico senza dare un giudizio di merito sui contenuti (questa riflessione non è la sede adatta). Un meccanismo del genere porta di sicuro all’indignazione, ma è difficile che crei la conseguente riflessione sulla complessità. Si salta in pratica un passo, quello decisivo, il più importante. Quello della politica. E infatti il Movimento 5 Stelle si è presentato con un programma costruito nel 2009 per le elezioni amministrative e locali: se realmente si definisce un movimento, perché queste idee rimangono cristallizzate dopo quattro anni e soprattutto non vengono ampliate, modificate rispetto a una consultazione parlamentare di carattere nazionale?

Temo che Grillo volutamente rimanga nel lessico e nella semantica della satira per convenienza, per rimanere perennemente solo nella fase dell’indignazione, magari anche necessaria, ma eludendo il più possibile il momento della politica: lascia questo compito agli attivisti, che quando devono prendere decisioni sulla condotta personale (riduzione degli stipendi e restituzione dei rimborsi elettorali) ovviamente riescono nel loro intento, ma quando c’è da discutere e operare in concerto con le altre componenti della società (sia buone che cattive) trovano non poche difficoltà, come Pizzarotti a Parma. Questo accade, a mio avviso, per via dell’intransigenza del programma, scaturita appunto da una perenne indignazione e rabbia contro il vecchio, l’avversario (se non addirittura nemico), e per via di un cordone ombelicale difficile da recidere con colui che rimane il deus ex machina del movimento, colui che sa fare e fa chiarezza se nascono divergenze o diatribe sulle idee e sulle cose da fare: Beppe Grillo.

Il Movimento 5 Stelle potrà essere anche un’officina di dialogo, ma se in esso si supera un certo limite di divergenza c’è chi per tutti prende la decisione su cosa è giusto o no fare, grazie alla forza morale che il suo ruolo di satirico (forza assimilabile a quella che avevano i satirici dell’antica Roma) gli conferisce.

Da pochi giorni abbiamo compianto la morte dello scrittore, politico ed ex partigiano francese Stéphane Hessel. Nel suo ultimo scritto gridava a gran voce alle generazioni più giovani della sua: “Indignatevi!”, ma in quel testo e con la sua vita ha dimostrato che quella è solo la prima fase di un cambiamento, è solo il primo passo. Allo slancio del cuore deve nascere, deve seguire (anche arrancando, a volte) lo slancio della testa, della Politica. In molti attivisti 5 Stelle c’è lo slancio del cuore: siamo sicuri che nell’impostazione che essi stessi si son dati (o che altri han dato loro) vi sia anche uno slancio capace di leggere una realtà complessa e di agire all’interno di essa?

Fermarsi alla satira o alla indignazione non mi basta. Non mi accontento. E per favore pretendiamo da tutti, ma proprio da tutti noi un approccio diverso, più serio e più efficace per cambiare le nostre vite.

giovedì 28 maggio 2015

Se ho un puzzle con pochi pezzi (e perfino brutti)

Spesso ogni possibile male accaduto in questi anni a società e Stato italiani vengono cercati nell'inefficienza (oltre che delinquenza) della classe politica (o più in generale "dirigente") che oggi è chiamata a governare. Spesso queste critiche sono fondate, vere o quanto meno toccano un problema reale, non sempre per forza sfociando nel superficiale qualunquismo. Spesso queste denunce provengono non solo dalla società civile ma anche dalla stampa, dai giornali, coloro i quali le divinità della democrazia in una notte di tanto tempo fa hanno consegnato questo compito: controllare, creare dibattiti, denunciare, informare; così io, cittadino di uno stato democratico, possa in sequenza fare analisi, farmi un opinione e votare o intervenire come parte di una società civile.

Ebbene, in questi giorni due articoli di giornale mi hanno gettato addosso non poca perplessità e anche un po' di rassegnazione; mi hanno fatto pensare: "A quando qualcuno che predica (e attua) una rottamazione dei giornalisti, possibilmente migliore di quella che si voleva fare per i politici?"

Il primo è questo, scritto da Paolo Mastrolilli, inviato de La Stampa a New York, con tanto di giovani festanti con la bandiera nera del Califfato di Al-Bagdadi.
Dal titolo uno viene catturato e allarmato... "Ma allora è vero! La distinzione tra islam autentico e moderato esiste ed è netta! e quest'ultimo è in netta minoranza! Il mio vicino di casa marocchino vuole sgozzarmi!"
Già, peccato che, leggendo l'articolo, si capisce che di sondaggio non si tratti...
La rete televisiva del Qatar (Paese fortemente sunnita, a cui l'Isis si rivolge, predicando l'eliminazione degli sciiti) ha chiesto ai suoi telespettatori (di cui solo 38000 hanno risposto), durante una trasmissione, di esprimere un'opinione sulle vittorie militari dell'Isis.
Per rattoppare la grossa inesattezza presente nel titolo Mastrolilli nell'articolo scrive "ci riferiamo ad un sondaggio digitale condotto dalla televisione «al Jazeera» fra il suo pubblico, che ha un valore scientifico molto relativo". Ma io direi proprio che ha un valore scientifico pari a nulla!!
Vi immaginate una trasmissione sulle prossime elezioni fatta da un ipotetica TeleLenin in una fascia oraria ristretta, chiedendo ai suoi telespettatori (in forte minoranza rispetto all'intera popolazione italiana) di esprimere un giudizio su una possibile rivoluzione proletaria da attuare? Beh, scopriremo magari che in Italia il 90% degli italiani sono pronti a instaurare una Repubblica socialista con la forza...

Un sondaggio è fatto di regole precise e di una preparazione non da poco: analisi della popolazione da rappresentare, scelta di un campione rappresentativo, scelta dei temi, costruzione delle domande, raccolta dei dati, ecc...
Lo scopo di scrivere ben in vista "Sondaggio choc. 80% dei mussulmani appoggia l'Isis" è uno solo: allarmare. Così, nella migliore delle ipotesi (e penso che sia il caso dell'articolo di Mastrolilli), vi è l'intenzione di far guadagnare il proprio giornale, con qualche copia in più venduta e qualche click in più sul sito da mostrare a chi compra spazi pubblicitari; nella peggiore delle ipotesi, vi è l'intenzione di favorire, rendendosi complici, di una realtà fittizia, non corretta, se non addirittura falsa.

Ed è difficile non avere il dubbio dell'ultima prospettiva con il caso del secondo articolo:
questo è solo l'ultimo di una catena di articoli che puntano molto sulla dichiarazione etnica di vittime e carnefici. In questo caso solo della carnefice, perché la donna uccisa è una immigrata filippina. Anzi, essendo la minoranza rom in Italia lo 0,25% della popolazione, maggior parte di questi con la cittadinanza italiana, questo articolo si inserisce non solo nel genere citato sopra, ma anche nel genere come non mai sempre più di moda, chiamato "Dagli del rom!" oppure "Giù di ruspa!".
Questi articoli hanno la colpa non di esprimere o accodarsi a un'opinione politica (benché a mio giudizio sbagliata e poco umana, come quelle di Salvini, Meloni, &Co.), ma ha la colpa maggiore di distorcere, cambiare la realtà e di impedire a me cittadino di farmi un'opinione corretta su come stanno andando le cose. 
Insomma, se riesci a mostrare agli altri il mondo con le tue lenti, potrai metterli nel sacco più facilmente.

Allora forse si capisce che in Italia il problema non sono tanto i politici, ma è culturale. Sì, ok, lo so che altri lo hanno già scritto, detto e ribadito meglio di me, tanto che ormai è un mantra delle banalità. Ma un problema banale non risolto rimane un problema irrisolto. Ma non lo si risolve solamente con riforme scolastiche, con più cultura e con più informazione di facciata (quella della par condicio): si risolverebbe con una pratica civile (ma faticosa) che è quella di fare i puzzle: leggere, leggere, non solo giornali, ma libri, saggi, romanzi, per non rimanere fissi su una fonte... e aiuterebbe anche meno indifferenza su questi fatti di discutibile o cattivo giornalismo.

Ecco, ora avete anche capito perché, alla fine, mi sono preso la briga di scrivere questo post.

martedì 6 gennaio 2015

La Saga dell'Anello: di fronte a P. Jackson e a J.R.R. Tolkien - parte 2

"Ma tutto ciò è non è possibile!". Sì, siamo d'accordo...

NOTIZIE TECNICHE PER LEGGERE QUESTO POST: il post contiene spoiler sull'ultimo capitolo della trilogia de Lo Hobbit, perciò verranno visibilmente evidenziati. Il post gode di lettura scorrevole sia con le parti contenenti spoiler che saltandole.

Ebbene, a caldo si può dire: "Abbiamo evitato il peggio". Vedendo le premesse del secondo film, cambiamenti e aggiunte incomprensibili, una maggiore fedeltà al SdA cinematografico piuttosto che all'opera letteraria, il terzo film de Lo Hobbit mantiene queste caratteristiche ma offre chicche niente male, in sintonia con il testo tolkeniano. Insomma, cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Detto ciò esprimerò un giudizio sul film in sè e sull'intera opera di Jackson, a caldo e a sentimento.
La scena iniziale de La Battaglia delle Cinque Armate è la naturale e fluida continuazione di quella finale del capitolo precedente: non vi è stacco o flash back come negli altri film della Saga dell'Anello.
[SPOILER]
La scena è d'impatto e Smaug si mostra in tutta la sua bellezza e potenza. La sua morte è altrettanto suggestiva e, a parte la scena del lancio della freccia nera e della corazza fatta non di diamanti ma di scaglie, rispecchia fedelmente il libro. Nota dolente: ritroviamo inoltre la coppietta Tauriel-Kili per la felicità delle ragazzine e dei farmacisti venditori di malox: lì li abbiamo lasciati, lì li ritroviamo, niente di più... Però non solo la dichiarazione d'amore è totalmente improbabile e inventata, ma è resa anche in maniera ridicola e imbarazzante.
Possiamo dire che a parte alcuni momenti e un paio di personaggi, Peter Jackson ha riportato fedelmente tutto quel poco scritto da Tolkien; quello non descritto e lasciato alla fantasia ha pensato bene di raccontarlo con la sua, di fantasia. La fantasia di un regista nerd che vuol far felici i fan nerd e non gli appassionati dei libri.
Quindi per gli appassionati delle opere letterarie questo è un film di luci e ombre. Tra le cose negative quella di aver cambiato completamente due personaggi, in particolare uno è stato a mio giudizio distrutto, facendogli perdere fascino e carattere.
[SPOILER]
Il Thranduil descritto da Tolkien è sì orgoglioso e in certa misura avido ma Tolkien lo descrive comunque buono e compassionevole ("...udita la preghiera di Bard, il re ebbe pietà, perché era il signore di un popolo buono e gentile", Lo Hobbit ed. Adelphi, pag. 288). Nel film è invece cinico, vendicativo e senza cuore, con un gusto morboso per la guerra. Legolas e la sua decisione finale di non far ritorno nel Reame Boscoso cambia non solo la narrazione e il personaggio ne Lo Hobbit ma anche nel Signore degli Anelli (da dove arriva quando giunge a Gran Burrone per il Consiglio di Elrond? A nome di chi rappresenta gli Elfi nella Compagnia dell'Anello?). Un personaggio che perde tutto il suo fascino nello spasmodico desiderio di esagerarlo e nella sua infatuazione amorosa resa banalmente: un personaggio distrutto, a questo punto anche per la trilogia precedente, difficile da guardare con le premesse cronologiche de Lo Hobbit.
Anche qui le battaglie sono esagerate, con una resa scenica che va dallo spettacolare al banale. È molto suggestivo il volo d'uccello sul campo da battaglia che mette bene in luce le forze in campo. Rispettate al meglio tutte le cinque armate, più arrivi successivi in soccorso dei "buoni", come previste dal libro.
Il personaggio di Thorin (barba a parte) è reso finalmente molto bene, stavolta bisogna riconoscerlo.
[SPOILER] 
La pazzia di Thorin dovuta al tesoro viene ben resa soprattutto dalle immagini di turbamento interiore nella sala dei re, dove dopo il tentativo di uccidere Smaug (inventato), si è formata un'enorme lastra dorata. Dain reso bene ma troppo caricaturale, quasi da necessario contraltare alla nobiltà di Thorin. Ben reso anche il dialogo finale con Bilbo, nel momento della morte di Thorin, frasi che se non inserivano nel film chiedevo indietro i soldi del terzo, secondo e primo film tutti insieme.
Fa male aver poca barba per un nano, lo dicevo io
Come dicevo, in eredità dal secondo capitolo riceviamo lo sciorinamento della storia d'amore tra Kili e Tauriel. Gli autori vedono in questa vicenda amorosa una bella storia di incontro tra culture e per questo si sentono legittimati sia da una bella dose di contemporaneo politically correct e sia da un presunto richiamo ai valori di Tolkien e della sua opera. La questione per me è un'altra e si sviluppa su due punti:
1) una storia d'amore tra un nano e un'elfa (di quel tipo d'amore e in quelle forme, visto in queste due pellicole) non è possibile nel mondo tolkeniano;
2) anche fosse possibile è stato reso veramente male, nei dialoghi, nella scelta degli attori e nelle situazioni banali e ridicole nel ridicolo.
Un innamoramento di un nano per un elfo femmina nelle opere Tolkeniane (senza inventare nulla) c'è e lo troviamo nei romanzi tanto che nelle pellicole: è l'infatuazione di Gimli per Dama Galadriel. 
Per chi non se la ricordasse, arrivata a Lothlorien, la Compagnia soggiorna diversi giorni e alla partenza ognuno riceverà da Dama Galadriel un dono; Gimli innamoratosi della sua purezza e della sua bellezza osa chiederle un capello della sua bionda chioma, perché da ritenersi più prezioso di ogni gemma o tesoro sulla terra; allo stesso modo anche la Signora di Lothlorien, da quanto ci fa intendere Tolkien, non rimane insensibile all'affetto e alla gentilezza che il nano ha visto nascere in sé.
Gimli dimostra una delicatezza e una gentilezza rare tra i personaggi della saga ("...si dice che l'abilità dei Nani risiede nelle loro mani e non nella lingua; non è certo il caso di Gimli. Nessuno mai mi ha rivolto una preghiera così ardita eppur così cortese", come disse Galadriel davanti ai presenti alla partenza della Compagnia, SdA, edizione Rusconi, pag. 466), ma mantiene la sua peculiarità nanesca: se deve confrontare quanto di più bello possa esistere nel mondo, lo fa descrivendolo come un gioiello più prezioso di ogni bene e tesoro: “«Non vi è nulla ch'io desideri, Dama Galadriel», disse Gimli con un profondo inchino e balbettando. «Nulla eccetto forse... eccetto, se mi è permesso chiedere, anzi, esprimere il desiderio, un capello della tua chioma, che eclissa l'oro della terra, come le stelle eclissano le gemme delle miniere [...]»” (SdA, ibidem). Inoltre Tolkien dona alla vicenda  caratteri dell'amor cortese ed è facile pensare alle chanson dei trovatori francesi del medioevo: il gentil amante s'innamora della donna angelica per la purezza che ella dona, ma questa è irraggiungibile, si può solo cantarne la bellezza. Galadriel mantiene le sue peculiarità angeliche (se tali possono esser chiamate) e si comporta come "datrice di doni", donando al nano ben tre capelli della sua chioma.
Tolkien perciò, nel descrivere questa forma d'amore del tutto eccezionale di un nano con un elfo femmina nel frattempo ne fissa i paletti invalicabili per questa possibilità! Sono due Colonne d'Ercole che nessun Ulisse del mondo tolkeniano può con leggerezza superare, tanto meno come ha fatto Jackson nel modo in cui ha plasmato la vicenda di Tauriel e Kili! Quest'ultima oltre a esser nata sul niente, è la trasposizione di un amore confezionato ad hoc per le tredicenni presenti in sala, senza quel fascino e quelle regole sociali necessarie per giustificarlo; poi la presenza del "terzo incomodo" biondo e cazzuto... beh, aumenta ulteriormente il ridicolo e la distruzione di un personaggio molto ben reso invece ne Il Signore degli Anelli.
Avendo visto finalmente l'ultimo film e richiamandomi ai due processi di costruzione dei film di Jacskon della Saga dell'Anello del post precedente, ritengo che l'ultima trilogia sia di fattura meno fedele e pregnante della precedente: ne Lo Hobbit Jackson non solo stravolge la fase 2 (quella del muovere le "figurine" create), ma stravolge anche la fase 1 (quella della creazione vera e propria del mondo e dei personaggi).
Thorin è l'esempio più eclatante (ma non solo), anche se nell'ultimo capitolo ritorna ad avvicinarsi al modello tolkeniano: più giovane e senza barba è difficile da riconoscerci il Thorin del romanzo. Radagast (il quale nei romanzi compare ne SdA ma non ne Lo Hobbit) è stato "saccheggiato" e reso solo figura comica per abbassare la tensione del film.
Chi hai fatto a pezzi? È la testa di Thorin? Di Thranduil? Di Legolas?
Non che nel SdA siamo privi di una costruzione dei personaggi che si discosti dagli originali (da vedersi il personaggio di re Theoden per esempio), ma in qualche modo avevano mantenuto una fedeltà morale e spirituale: Aragorn nel romanzo ha fin dall'inizio intenzione di rivendicare il trono, nei film è lacerato dai dubbi e dal timore del potere: nel film il personaggio cambia ma esprime una paura e un pensiero che si porta dietro dal modello originale. Accade così con Radagast e con altri personaggi de Lo Hobbit?
Lo Hobbit cinematografico ha il pregio di aver portato sullo schermo capitoli delle storie tolkeniane non presenti nel libro ma scritti di contorno per sorreggere in seguito la coerenza con il SdA. Tolkien è stato scrittore prolifico e ancora oggi dalla sua morte il figlio Christopher cura e pubblica gli scritti inediti. Molti di questi sono protetti dal diritto d'autore che il figlio conserva gelosamente, anche per via del dichiarato odio per la trasposizione cinematografica; ma molti altri sono compresi nei diritti cinematografici o facilmente citabili.
Insomma, il materiale da utilizzare era molto, quindi mi domando: perché allargare con scene inventate o falsate quest'ultima trilogia? Perché intaccare così anche il processo 1 citato, stravolgendo testo e personaggi? Non si potevano fare tre film da due ore ciascuno ma più belli? No, se vuoi accontentare i fan della passata trilogia blockbuster più di quelli delle opere letterarie.
[SPOILER] 
Scusate... ma voi avete capito da dove diamine ha tirato fuori i "mangiaterra"? No perché io non ne sentivo per niente la necessità...


A mio giudizio bisogna dire un enorme grazie a Jacskon, senza se e senza ma, e sarà difficile o impossibile in futuro ricreare o rimetter mano al mondo di Arda, per il grande lavoro e dispiego di forze coinvolti che è riuscito a mettere in campo il nostro "grande e paffuto hobbit nerd"; forse proprio per questo però alcune cose potevano esser pensate meglio, prima di lasciarle invariate e invariabili ai posteri. 
Dopo dieci anni di film rimane un solo caposaldo mai passato di moda a cui appellarsi SEMPRE per godere bellezza, stupore e stuzzicare la propria fantasia su queste storie: sedersi su una poltrona o all'aperto (con o senza pipa in bocca), aprire un libro e iniziare a leggere, "In un buco nel terreno viveva uno hobbit..."