lunedì 14 settembre 2015

Qualcosa di storto in questa visione dello Stato di diritto

"Cercavi giustizia, trovasti la legge"

Credo che non si possa iniziare diversamente questo post, in questo mio blog a sfondo ciclabile, citando il buon De Gregori con la sua bella ballata che racconta dell'eroe Gilardengo e dell'amico Sante Pollastri. La giustizia non appartiene a questo mondo, possiamo solo accontentarci della legge, della legge degli uomini s'intende. Non è molto, non ci azzecca sempre, ma questo abbiamo: dall'Impero romano a oggi, passando per i giusnaturalisti e qualche rivoluzione, i nostri padri ci hanno lasciato in eredità - magari passando per esperienze terribili quali il fascismo - una cosa chiamata "Stato di diritto", in cui le libertà fondamentali dovrebbero essere riconosciute, difese e promosse (e non solo promesse). Per tutti. Sì, perchè l'uguaglianza, valore sacrasanto che il 1787 e il 1789 hanno osato rendere politico, è la volta che sorregge tutta la cupola di questa eredità giuridica che, senza saperlo, viviamo e respiriamo fin dalla tenera età, fin dai banchi di scuola, nostra prima occasione di esperienza civica e laica in un luogo pubblico.

È indubbio che durante i miei anni di vita una grave minaccia allo Stato di diritto è stata quella rapprensentata dai governi Berlusconi, in cui più e più volte si è svilito, attaccato e a volte colpito quel sacrosanto valore per cui siamo tutti e tutte uguali di fronte la legge.
Così l'Italia, Paese delle clientele, ha potuto vedere e ammirare il lavoro e la denuncia fatta da diversi giornalisti che, forse più di tutti (insieme ai magistrati), hanno subito gli attacchi mediatici del ventennio berlusconiano quando non si allineavano alla propaganda dettata dal governo. Alcuni hanno fondato piattaforme televisive, altri addirittura giornali.
Io sono stato uno di quelli che era felice della nascita de Il Fatto Quotidiano, un giornale che vedevo come una piazza in cui liberamente (senza interessi politici alle spalle) alcune firme potevano raccontare ciò che capitava in questo Paese tanto ovattato dalla propaganda. Ritenevo che possedesse ciò che per un giornale è importante: la credibilità. Da tempo però mi devo ricredere, e non solo per il caso qui raccontato.

L'altro giorno - dopo qualche giorno in cui il fatto fece scalpore sulla stampa nazionale - mi è capitato di leggere questo articolo a firma di Thomas Mackinson e mi son detto: "Ok questo è troppo".

La vicenda è nota: un ex professore, Giovanni Scattone, condannato per l'assassinio di Marta Russo (ero piccolo, ma ricordo perfettamente quanto i tg all'epoca davano spazio alle indagini di questo intricato omicidio), dopo aver scontato la pena vince una cattedra come insegnante nello Stato. Attenzione, "dopo aver scontato la pena". Dopo una settimana di polemiche Scattone ha rinunciato alla cattedra.
Ora, Mackinson incomincia una riflessione se sia giusto o meno che un individuo condannato come assassino possa, una volta scontata la pena, fare certi lavori. Io aggiungerei, il "suo" lavoro. Non voglio entrare nella polemica se sia stato realmente Scattone a compiere quel delitto (si è sempre dichiarato innocente), ma il punto è che per lo Stato di diritto, se tu hai scontato la pena prevista dalla legge, sei di fronte alla legge e allo Stato riabilitato, hai "pagato il tuo debito con la società", si dice. Per Mackinson e per Il Fatto Quotidiano parrebbe di no. Inoltre noto che spesso la tecnica utilizzata è mettere in campo un esperto, un professore, che ovviamente dia ragione alla tesi della redazione... senza però aprire un vero confronto e senza neanche aver la pretesa di dire o meno se l'opinione espressa sia accademicamente riconosciuta o maggioritaria.

Il fatto che un assassino ritorni al suo lavoro può farci storcere il naso e il cuore, ci può far gridare che Scattone debba marcire in cella o debba almeno trovarsi un lavoro diverso dal quale gli avrebbe permesso di compiere il suo "delitto perfetto", ma non funziona così lo Stato di diritto. Trovo altamente pericolosi questi atteggiamenti quanto lo erano quelli del governo Berlusconi, che miravano a sancire un cittadino più uguale di altri. Se poniamo che la pena non cancella la colpa e non recupera il condannato, ci perdiamo secoli e secoli di faticosa eredità lasciataci dai nostri padri. Piaccia o non piaccia, è un diritto di Scattone, una volta scontata la pena, di essere riabilitato, come di qualunque cittadino facente parte di una comunità di persone che scelgono lo Stato di diritto come cornice in cui promulgare le proprie leggi.

Insomma il paradosso è compiuto: uno dei pulpiti che in passato ha difeso lo Stato di diritto oggi si pone contro alcune delle sue espressioni elementari e sacrosante. E potrei citare altri esempi, come la polemica nata mesi fa su Adriano Sofri, ben cavalcata da Marco Travaglio e dal suo senso della legge (per fortuna esistono persone come Ascanio Celestini!).

Il problema è che questo atteggiamento... ehm... giustizialista (sì, l'ho detto e mai mi sarei immaginato un giorno di dirlo, benché faccia parte del linguaggio berlusconiano) spesso viene presentato come vero spirito di difesa dello Stato di diritto. Io temo che ciò ci porterebbe da altre parti e non so come possa solo venire in mente di aprire una discussione se sia lecito o meno questo diritto in un articolo di un giornale; e allora non solo dovremo fare a meno della giustizia, ma anche di quel palliativo con cui noi mortali cerchiamo di imitare Dio chiamata legge di diritto.

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